In questo numero presentiamo alcuni aspetti della complessità delle nostre relazioni con gli animali, così come essa si è configurata in diverse discipline che, da alcuni decenni, si sono aperte al loro studio. Gli animali e le comunità interspecifiche che si sono susseguite fra di essi e gli esseri umani hanno significato, per molte di queste ricerche, non tanto un nuovo oggetto, un semplice allargamento del loro campo di indagine, ma una messa in questione dei loro metodi e concetti ed in particolare l’emergere di una nuova concezione di soggettività.
L’ultimo saggio storiografico di Éric Baratay evidenzia come una lettura non pregiudiziale delle fonti documentarie lasci emergere la presenza costante di un soggetto agente che la storiografia, centrata sul soggetto umano, ha finora ignorato. Se non presupponiamo che l’unica soggettività capace di storia sia quella umana, scopriamo non solo dei nuovi attori che a quella storia hanno partecipato a tutti gli effetti, ma siamo obbligati a riconsiderare le modalità stesse di quel divenire che in maniera ormai obsoleta opponiamo alla «natura». Da qui la necessità, per le scienze sociali che vogliano dar conto dell’effettiva pluralità del loro oggetto, di padroneggiare competenze di discipline come l’etologia, la psicologia o la biologia evolutiva, non per un ennesimo e ormai stantio appello alla multidisciplinarietà, ma per la necessità di ridisegnare i confini ed i contenuti stessi di saperi costituitisi ormai da più di un secolo.
Con la traduzione dello studio che Marion Vicart ha dedicato alcuni anni or sono ad un particolare contesto di interazione fra un umano ed un cane, vogliamo proporre un esempio concreto di come la ricerca sociologica, tradizionalmente centrata sulla sola interazione fra soggetti umani, possa affrontare la presenza animale non relegando quest’ultimo ad un elemento dello sfondo: un «cambiamento del nostro atteggiamento visuale», che fa emergere una relazione importante ma spesso ignorata dagli stessi partecipanti. Uno spostamento non meno importante per comprendere la realtà degli animali nelle nostre società è dato inoltre dalla scelta stessa della situazione che viene presa come oggetto di studio: la presenza quotidiana, costante, forse trascurata ma massiccia degli animali e non le situazioni di eccezionalità, come i riti religiosi, o quelle di subordinazione utilitaria.
Questo relegare il rapporto con gli animali nell’ambito del dolore e della paura è infatti la tendenza dominante che troviamo non solo nelle scienze sociali ma anche in filosofia; e bisognerà interrogarsi sul significato di questa riduzione, di questo schiacciare ogni relazione nella monotonia di un annichilimento. L’articolo di Agnese Pignataro prende in esame questa strana focalizzazione dello sguardo, che può riassumersi nella pretesa che la teriofobia riassuma tutti i nostri rapporti con gli animali. Che modi di interazione differenti e caratterizzati da specifici rapporti di potere come l’addomesticamento, il sacrificio, l’eliminazione e l’uso alimentare (per tacere poi degli aspetti di condivisione e gioia!) possano essere confusi nell’unica categoria della negazione è senz’altro il modo dominante con cui il pensiero occidentale, almeno da qualche secolo, ha concettualizzato quelle relazioni concrete, ma si tratta appunto di uno sguardo già antropocentrico, che, per di più, gli stessi studi antropologici hanno ormai rifiutato.
La domesticazione, nella sua complessità di rapporto materiale, biologico e psicologico, dove si intrecciano rapporti di sfruttamento e di reciprocità, costituisce una condivisione, una comunità di appartenenza che Rossella Traversa inizia ad indagare applicando alcuni paradigmi della psicologia sociale, come in particolare quello di appartenenza. La creazione di legami, l’instaurarsi di rapporti emotivi comporta anche la produzione di conoscenza, intendendo con questa non solo una competenza strumentale e reattiva ma anche un sapere «disinteressato», mosso dal desiderio ed indirizzato ad un non-ancora. Questo tipo di conoscenza legata alla corporeità e alla sua relazionalità è dunque comune ad umani ed animali, al di là delle differenti modalità di elaborazione della rappresentazione. I nuovi approcci relazionali all’inconscio, la critica del concetto di pulsione (come già di quella di istinto) vanno nella direzione di quella definizione non antropocentrica di soggettività verso cui tendono, come abbiamo visto, anche altre discipline.
Infine l’articolo sulla sperimentazione animale, già pubblicato in concomitanza con le mobilitazioni avvenute nel mese di ottobre contro la vivisezione, affronta il problema della coerenza dell’agire, distinguendola dalla coerenza meramente logica. Richiamandosi anche alla teoria del care sottolinea come motivazioni originate dalla concretezza delle situazioni e dagli affetti e responsabilità in cui il soggetto è immerso non sono istanze meramente soggettive ed arbitrarie, ma costituiscono a pieno titolo degli elementi indispensabili della coerenza dell’agire pratico.
Arrivederci in primavera.
Brunella Bucciarelli