Riflessioni femministe sugli umani e su altri animali domestici

Di Dianne Romain

Traduzione: Agnese Pignataro.

Questo articolo è tratto da Between the Species, Autunno 1990.


Una volta un’amica mi parlò di alcune mucche rinchiuse in un pascolo poco lontano. Mi disse che una volta all’anno alcuni uomini venivano per portar via i loro vitelli. Aggiunse che «dopo, le mucche muggiscono per quattro giorni e quattro notti».

Anch’io so com’è un muggito di angoscia. Ora, quando sento quel muggito venire dai campi, penso alle madri mucche che hanno perso i loro vitelli. Quando mi soffermo a pensare alla madre mucca e contrappongo la sua immagine al ricordo dell’arrosto di vitello di mia madre, è la madre mucca ad avere la meglio. Quando mi tornano in mente le grida della mucca, l’idea di accettare il cibo offerto da mia madre è inconcepibile.

Perché ho intitolato questo scritto «Riflessioni femministe»? Per prima cosa, perché in esso metto in pratica un metodo femminista consueto, che consiste nell’incoraggiare la consapevolezza attraverso la narrazione di storie. In secondo luogo, perché nelle mie riflessioni mi baso sul pensiero femminista per articolare alcuni problemi che sorgono nella mia relazione con altri animali domestici. Mi servo del lavoro di scrittrici femministe per discutere di cura, oppressione e spiritualità. Ho scelto la parola «riflessioni» per indicare che non intendo stabilire o dimostrare una tesi particolare1. Lo scopo delle mie osservazioni è sollevare domande piuttosto che trovare risposte.

Napenthe

Portai via Napenthe alla sua famiglia quando era ancora una gattina. Il suo «proprietario» me l’aveva venduta. Napenthe rimase nel ripostiglio del mio mini appartamento per due giorni, poi mi accettò come coinquilina. Per anni vissi sola e lei ebbe tutta la mia attenzione. Si accoccolava accanto a me ogni volta che voleva, malgrado io la spingessi via quando cercava di frapporsi tra me e un libro. Ogni notte Napenthe strisciava sotto le coperte per venire accanto a me.

Quando andai a vivere con il mio compagno, lui non voleva che Napenthe venisse nella camera da letto durante la notte. Mi disse: «tu fai le coccole a lei invece che a me». E così la chiudemmo fuori dalla porta. Quando Napenthe cominciò a lamentarsi, miagolando come solo un Siamese sa fare, e ci svegliò, la mettemmo al piano terra vicino al suo angolino preferito, in cima allo scaldabagno.

La mattina, oppure quando sono stata via tutto il giorno, Napenthe mi sta alle costole miagolando nel modo più lamentoso possibile finché non la prendo in braccio. Si rannicchia sul mio collo, strofina il naso contro il mio orecchio per qualche minuto, poi quando la metto giù ritorna sullo scaldabagno oppure sotto la stufa a legna. Ma a volte, quando vado molto di corsa, oppure quando sono nervosa dopo aver passato una giornata a scuola, la ignoro.

I gatti amano il contatto fisico. Durante il giorno, quando sono ammessi in camera da letto, tutti e tre i nostri gatti si rannicchiano contro di me. Mutley arrotola il lenzuolo sul mio petto, Napenthe mi lava le orecchie e Turtle mi lecca la mano. Loro però non provano mai la sensazione di una lingua ruvida che lecchi loro le orecchie. Cresciuti l’uno indipendentemente dall’altro, non hanno l’abitudine di dormire insieme o di farsi reciprocamente la toeletta, come fanno i gattini di una stessa cucciolata2.

Prendersi cura dei e con i gatti

Nel libro Caring. A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, Nell Noddings assegna alla cura e all’impegno nel dare cura il ruolo di «cuore universale» della sua etica3. Il suo paradigma del prendersi cura è la concentrazione totale della madre sul figlio. Scrive Noddings:

«La cura della madre per il figlio, dell’adulto umano per il bambino, suscita sentimenti tenerissimi nella maggior parte di noi. In effetti per molte donne questo sentimento di protezione rappresenta l’essenza stessa di ciò che riteniamo essere buono.»4

Malgrado Noddings ammetta che gli altri animali possono manifestare comportamenti di cura ed essere sensibili al care che ricevono dagli umani, l’obbligo umano all’attenzione e alla cura si applica essenzialmente agli altri umani. Noddings scrive:

«Una posizione filosofica che abbia difficoltà a distinguere tra i nostri obblighi verso gli infanti umani e, per esempio, verso i maiali, si trova immediatamente in difficoltà. Essa fa violenza ai nostri sentimenti più profondi sulla bontà umana.»

Per Noddings, l’obbligo alla sollecitudine verso gli altri è limitato dalla natura della potenziale relazione con l’individuo del quale ci si dovrebbe prendere cura; l’obbligo esiste solo nella misura in cui c’è una potenziale reciprocità. Noddings ritiene che mentre nei bambini umani c’è una potenziale reciprocità, gli altri animali non possono mai ricambiare5. Per questo i miei obblighi verso gli animali non umani sono limitati.

Sono però noti i problemi che scaturiscono dalla visione di Noddings secondo cui l’obbligo morale deriverebbe dalla reciprocità. Tale visione preclude infatti le responsabilità nei confronti degli esseri umani distanti, oltre che quelle verso gli animali e l’ambiente. Tuttavia l’ideale etico di Noddings porta alcuni buoni risultati per gli animali. Il fatto che Noddings riconosca che gli altri animali praticano la cura e il suo collocare il care al centro dell’ideale etico comporta l’attribuzione di valore agli animali che praticano la cura, indipendentemente dalla loro utilità per gli umani. Se avessi dato ai bisogni di Napenthe altrettanto peso che ai miei e se avessi dato importanza alle relazioni di care tra gatti, avrei lasciato Napenthe nella sua famiglia, o avrei adottato gli altri gattini della sua cucciolata. In tal modo, Napenthe avrebbe beneficiato della presenza di membri della sua famiglia che le avrebbero leccato le orecchie e l’avrebbero scaldata durante la notte6.

La moralità in termini umani

Un giorno, mentre guidavo su un’autostrada che attraversava le colline della Sonoma County nella California del Nord, ascoltavo alla radio una donna – che sosteneva di poter entrare in contatto medianico con gli animali – che parlava degli animali da macello. In sottofondo si sentivano i rumori di un mattatoio. Con una voce dolce e rassicurante, la donna disse che si era recata in quel mattatoio per farsi un’opinione su ciò che il bestiame pensa della propria vita. Descrisse tutte le tappe del processo di macellazione. Disse che il bestiame non sente dolore intenso. Disse che gli animali esprimevano soddisfazione per la loro esistenza perché capivano che stavano dando la vita per una buona causa. L’intervistatore chiese a un uomo che lavorava nel mattatoio cosa ne pensasse. Costui, un uomo di campagna che aveva trascorso tutto il giorno al mattatoio lavorando con il bestiame, rispose che non sapeva cosa pensassero le mucche.

Mi servo di questo esempio per ricordare che né la prossimità con l’altro né la concentrazione totale su di lui garantiscono di capirlo. Non essendo mai stata in un mattatoio non posso paragonare la mia esperienza con l’esperienza di quella donna. Eppure ascoltandola sono stata presa dal disgusto. Le sue affermazioni mi fecero pensare a tutte le volte che ho sentito dire che le donne sono soddisfatte di essere al servizio degli altri. Ma nel corso della storia gli individui oppressi hanno fatto buon viso a cattivo gioco accettando di servire gli altri per evitare ritorsioni sociali, economiche o fisiche7. Quindi, prima di servirci della voce di una persona oppressa per giustificare le nostre azioni, dobbiamo chiederci se tale persona parla liberamente. Nel caso di esseri che non parlano lo stesso linguaggio sorgono difficoltà ulteriori. Qui non si tratta solo di prendere coscienza di una voce falsa ma di cercare di immaginare il modo in cui quell’essere descriverebbe le proprie preferenze, se potesse. Nel determinare ciò, dobbiamo diffidare dei nostri preconcetti di umani. Dobbiamo chiederci se qualcuno che trae vantaggio dai servizi di una mucca possa esprimere un giudizio onesto in merito a ciò che è bene per la mucca.

Spesso non è possibile avere fiducia nella capacità degli esseri umani di valutare ciò che è bene per una mucca, o valutare la sua importanza. Nel determinare l’importanza di un individuo, filosofi come Aristotele, Kant, Mill, Bentham e Noddings prendono come punto di partenza l’umano. Essi considerano l’uomo e – in tempi più recenti – la donna come la misura di tutte le cose. Nel caso di Mill, gli altri animali ne escono fuori meglio, ma anche in quel caso il loro valore intrinseco diminuisce col diminuire della loro capacità di provare piacere e dolore.

Ma lasciando da parte per il momento la questione della presunzione umana, un altro problema si presenta agli umani quando si tratta di valutare il benessere degli animali. Come possiamo riconoscere la deprivazione negli altri animali quando non vediamo la nostra? Siedo nel mio studio senza neanche più sentire la carta tra le mani. Batto sulla tastiera del mio computer, clic, clic, clic. Insegno alla luce di lampadine fluorescenti in sale prive di finestre. Due settimane dopo il passaggio all’ora legale, uscendo dalla mia lezione serale ancora mi sorprendo nel trovare la luce all’esterno. Avrebbe potuto essere mezzogiorno o mezzanotte. L’aula in cui faccio lezione non mostra nessuna differenza. Perché meravigliarsi allora se nella mia separazione dalla natura non mi preoccupo del fatto che gli animali vengano spostati dal loro habitat naturale? I tucani che vivono nei soggiorni delle nostre case provano nostalgia per l’odore umido delle foreste tropicali e per le grida delle scimmie urlatrici? Come posso pensare cose simili senza provare collera per la mia propria domesticazione? Ma dal mio punto di vista umano, il sistema di riscaldamento e le luci artificiali rappresentano il progresso. Il tucano è fortunato a condividere la stanza con me.

Oppressione

Ho parlato dell’oppressione umana sugli altri animali. Ma mi chiedo in che senso il concetto di «oppressione» possa essere applicato. Quando le femministe parlano di oppressione delle donne, si pensa soprattutto all’assenza delle donne dai ruoli di potere politico o economico e si descrivono gli atteggiamenti che la società radica in noi per mantenerci impotenti politicamente ed economicamente. Ma sicuramente gli altri animali non mirano ad ottenere seggi in Senato e uguaglianza salariale. Rispetto agli altri animali, non dovremmo allora parlare di sofferenza piuttosto che di oppressione?

L’articolo di Marilyn Frye «Oppression» suggerisce una risposta a questa domanda. Malgrado Frye si concentri sull’oppressione delle donne, la sua analisi può essere estesa agli altri animali. Frye scrive:

«È chiaro che se si vuole stabilire se un particolare tipo di sofferenza, danno o restrizione fa parte dell’oppressione di qualcuno, è necessario inquadrarlo in un contesto per poter dire se si tratta di un elemento di una struttura di oppressione: bisogna vedere se fa parte di una struttura di costrizione composta da forze e barriere che tendono a immobilizzare e degradare un gruppo o categoria di persone. Bisogna guardare al modo in cui la barriera o forza si integra ad altre, e a beneficio o a danno di chi opera.»8

L’analisi dell’oppressione di Frye può essere applicata agli animali domestici. Gli umani creano forze e barriere sociali che condizionano mucche e gatti. La domesticazione stessa condiziona il comportamento di mucche e gatti. Ma le mucche e i gatti sono ulteriormente controllati per servire scopi umani. Ai gatti che graffiano vengono asportati gli artigli. Le mucche vengono obbligate a far parte della forza lavoro che produce il latte. Gli umani condizionano il comportamento di mucche e gatti per perseguire i propri fini.

Voglio aggiungere un’altra caratteristica all’oppressione. L’oppressore giustifica la sofferenza e il controllo facendo appello al maggior valore intrinseco dell’oppressore. Questa caratteristica dell’oppressione mette in luce una differenza tra l’esperienza dell’oppressione per gli umani e per gli animali: gli umani provano non solo il dolore della costrizione ma anche l’umiliazione di essere disprezzati. Gli altri animali oppressi non devono sopportare la sofferenza aggiuntiva di sapere che gli umani li disprezzano. Cionondimeno, gli altri animali sono di fatto disprezzati, subiscono sofferenza, e vengono condizionati a nostro vantaggio e a loro danno. Quindi, gli altri animali sono oppressi.

Vedere Dio

La mia descrizione dell’oppressione umana presuppone che gli umani non siano più importanti degli animali. Non so in che modo dimostrare questa affermazione. Ma nessun altro ha provato il contrario, cioè che gli umani hanno intrinsecamente maggior valore degli animali. Non posso spiegare perché sono convinta che la mia affermazione sia vera. Ma posso dirvi qualcosa su come sono giunta ad accettarla, o dovrei dire piuttosto come sono giunta a provarci. Perché non sono completamente sicura di accettarla pienamente.

Quando ero bambina, restavo sveglia la notte ad angosciarmi per la paura di andare all’inferno. Avevo paura perché non sapevo come credere in Dio, e mi era stato detto che sarei andata all’inferno se non avessi avuto la fede. Alla fine risolsi il problema smettendo di credere nell’inferno. Anche se a volte mi succedeva di sentire che mi mancava qualcosa per il fatto di non credere in un mondo spirituale, non ho mai voluto credere in un Dio che avevo finito per associare all’oppressione e alla violenza. Ma in seguito cominciai a pensare che dopotutto potevo credere in Dio, dopo aver letto The colour purple di Alice Walker. Ecco in che modo Shug descrive come ha trovato Dio:

Il mio primo passo per allontanarmi dal vecchio uomo bianco sono stati gli alberi. Poi l’aria. Poi gli uccelli. Poi le altre persone. Ma un giorno, mentre sedevo in silenzio e mi sentivo come un bambino senza madre – ed effettivamente lo ero – infine arrivò: quella sensazione di essere parte di tutto, senza alcuna separazione. Sapevo che se avessi tagliato un albero, il mio braccio avrebbe sanguinato. E risi, poi piansi, poi corsi per tutta la casa. Sapevo esattamente cos’era. Infatti, quando succede, non puoi non accorgertene9.

Ma come si fa il primo passo? Come si fa a cominciare a vedere che gli alberi sono sacri? L’aria? Gli uccelli? Celie racconta ciò che dice Shug:

Intanto, come dice Shug, devi toglierti l’uomo dalla testa se vuoi vedere qualcosa. L’uomo corrompe tutto, dice Shug. È nella scatola dei fiocchi d’avena, nella tua testa, in tutte le stazioni radio. Vuole che tu pensi che è dappertutto. Appena ti convinci che è dappertutto, pensi che è Dio. Ma non è Dio. Quando vuoi pregare, e ti compare davanti l’uomo, mandalo a quel paese, dice Shug. Immagina invece fiori, vento, acqua, una grande roccia10.

Molto tempo dopo aver smesso di credere nell’inferno, avevo ancora davanti l’uomo. Avevo usato l’uomo come criterio di valore. Mi ero valutata io stessa in base al fatto di avere caratteristiche tradizionalmente associate agli uomini. In un’epoca più recente, attraverso il lavoro di autrici femministe come Noddings e Carol Gilligan, ho incluso la donna nel mio campo visivo. Ora sto cercando di togliermi da davanti sia l’uomo che la donna in modo da poter vedere il valore negli altri animali11.

Il Rosso e il Grigio

Venne correndo quando chiamai, anche se non lo avevo mai chiamato prima. Non avevo voluto incoraggiarlo. Ma quando alla fine lo chiamai, si rannicchiò contro di me, come se avesse aspettato quel momento per tutta la vita. Scappò una prima volta dal trasportino. Il figlio del mio compagno, che stava lì vicino, disse: «ora non lo prendi più». «Verrà lui da me», risposi io. Potevo vedere che quel gatto rosso era talmente affamato di attenzioni che sarebbe venuto, e così fece. Venne da sotto la veranda quando lo chiamai, e stavolta riuscii a chiuderlo nel trasportino.

Mi meraviglio ancora di me. Come potevo portarlo al rifugio dopo aver constatato il suo bisogno di affetto? Mentre andavo divenni sempre più angosciata. Ma pensai che quel gatto aveva cacciato e attaccato le nostre gatte, che una di loro era incinta e che lui avrebbe potuto uccidere i gattini, e ancora che spruzzava urina per tutta casa. Malgrado queste giustificazioni, non riuscivo a decidermi a portarlo al rifugio, finché decisi di adottare un altro gatto al suo posto. Così presi Mutley.

Ora c’è un maschio randagio grigio. Quando dormiamo o non ci siamo, entra in casa attraverso la gattaiola del piano di sopra, mangia il cibo dei nostri gatti, marca la casa e se ne va. Il mio compagno dice: «una volta gli avrei sparato». Ma ora non è più così. Il mio compagno ha messo una porta sopra alle scale per impedire al Grigio di spruzzare sul nuovo tappetino. Ma lui continua a spargere il suo profumo nel mio studio. Il nostro veterinario dice che dovremmo sbarazzarci di lui e suggerisce di usare una gabbia-trappola. Ma io sono riluttante. Dopotutto, cosa ha fatto di male? I nostri gatti non sembrano badargli e non abbiamo gattini da proteggere. Potrebbe prendersi la rabbia e contaminarci, ma lo potrebbero fare anche le moffette, eppure non penso di catturarle e imprigionarle. Non ho dimenticato come mi sentivo quando ho portato il gatto rosso al rifugio. Penso di poter convivere con l’odore del Grigio.

Ideali e realtà

Come posso dire quello che dico e continuare a fare quello che faccio?12 Se veramente credessi che gli umani non valgono più degli altri animali, come potrei solo pensare di mettere in gabbia il Grigio? Potrei essere più generosa con me stessa e chiedermi invece: se non avessi tenuto in conto il valore del Grigio, avrei mai preso in considerazione l’ipotesi di non metterlo in gabbia? Ma ora voglio concentrarmi su come le mie azioni sono condizionate dal comportamento degli altri umani.

Non avrei dovuto affrontare la decisione su come comportarmi con il Grigio se altri umani non lo avessero reso un animale d’affezione abbandonandolo in seguito. Il mio problema derivava dalle azioni di altri umani. Vorrei poterlo riportare indietro sulla soglia della loro porta. Ma non posso. Non so chi sono. E anche se lo sapessi, probabilmente lo abbandonerebbero di nuovo nella campagna o lo porterebbero al rifugio.

Alla fine il mio problema con il Grigio nasce dalla domesticazione degli animali. Se fosse un gatto selvatico e non un animale d’affezione, se ne starebbe nei boschi come le linci. Se non avessi altre gatte domestiche in casa, non verrebbe qui a marcare il territorio. Ma il Grigio è un animale interamente addomesticato ed io ho tre gatte. Ovviamente continuerà a farci visita.

Mi chiedo se non starei meglio senza animali domestici. Non avrei problemi con il Grigio. Ma allora non avrei neanche la mia piccola devota, Napenthe. Malgrado mi lagni della sua lingua rugosa, le sue fusa di felino domestico mi fanno piacere. Mi chiedo se porrei fine alla domesticazione degli altri animali, se ne avessi il potere. Ma anche questa ipotesi è soggetta al preconcetto umano, perché non posso comunicare con gli altri animali per vedere cosa sceglierebbero loro per loro stessi.

Rosella

Alcuni anni fa, una mattina di ottobre, un pappagallo Rosella fuggiasco comparve su un ramo basso di un abete di Douglas nel nostro cortile. Ci svegliò con i suoi richiami forti e allegri.

Andammo al negozio di alimentari del paese e comprammo dei semi per lui, poi istallammo una mangiatoia nel noce vicino alla nostra casa, in modo da poterlo vedere. In breve tempo prese l’abitudine di venire al noce ogni mattina e di guardare la porta finché non portavo fuori i semi. Volava via sull’abete finché non me n’ero andata, poi tornava e mangiava la sua colazione. Quando aveva finito, altri uccelli accorrevano sull’albero e svuotavano rapidamente la mangiatoia.

Rosella, come la chiamammo, restava un bel po’ sul ramo basso dell’abete e a volte scendeva dalla rete metallica e passeggiava nel cortile. Dopo la sua visita mattutina, si lanciava in picchiata attraverso i cespugli di more verso il cipresso di Monterey che si stagliava in cima alla nostra collina. Mentre volava via, cantava una canzone diversa da quella con cui ci aveva svegliati la mattina. In genere Rosella tornava nel tardo pomeriggio per una breve visita, poi se ne andava fino alla colazione del giorno dopo. Continuò così per sei mesi. Sopravvisse anche alla grandine e alla neve leggera.

Un giorno di marzo Rosella non venne. Avevamo discusso dell’eventualità di catturarla – per il suo bene, ovviamente – per proteggerla da vento e pioggia e dai predatori: i gatti, le civette. Ma non avevamo mai veramente cercato un modo di catturarla. Non ci sarebbe stata nessuna magia nel vedere Rosella che aspettava in gabbia la sua razione mattutina di semi di girasole. Anche se avesse continuato a cantare tutto il suo repertorio, non avremmo potuto ammirare il suo volo in picchiata sui cespugli di more.

Relazioni diminuite/relazioni aumentate

Avevo criticato la pratica di mettere gli uccelli in gabbia prima di conoscere Rosella. Ma dopo averla sentita cantare sopra ai cespugli di more, non potrei mai mettere un uccello in gabbia. Penso che nessuno che abbia conosciuto Rosella potrebbe volere un uccello in gabbia. Vedere, anche di sfuggita, un animale divenuto libero ci ispira nuovi ideali.

Il segreto sta nel vivere l’esperienza. Con le relazioni umane è lo stesso. Se si è abbastanza fortunati da sperimentare una relazione in cui ci sono attenzione e rispetto reciproci, non ci si accontenterà mai di meno. Ma siccome gli esseri umani vengono spesso educati sulla base di modelli di abuso di potere, l’attenzione e il rispetto reciproci sembrano un ideale romantico piuttosto che un obiettivo realizzabile. Solo dopo anni di psicanalisi ho imparato ad aspettarmi attenzione e rispetto reciproci. Ora non accetto nulla di meno. Penso che sia lo stesso per noi e gli altri animali. Se mai rinunciassimo alle relazioni di oppressione verso di loro non vorremmo tornare indietro. Ma questo è difficile da immaginare ora, perché nel mondo reale le relazioni di oppressione tra gli umani e gli altri animali sono la norma.

Dubbi ancora aperti

Quando assegno come compito ai miei studenti di riflettere su questioni controverse, chiedo loro di arrivare ad una conclusione, ma anche di esprimere i dubbi che restano aperti. Questo esercizio ha qualcosa di liberatorio. Non è necessario avere tutte le risposte prima di offrire una conclusione. Scrivedo questo saggio, mi sono permessa di fare un’affermazione che sotto altri aspetti avrebbe potuto sembrarmi sconclusionata, perché sapevo che avrei avuto la possibilità di esprimere i dubbi che restavano aperti. In realtà non ho dubbi per quanto riguarda la mia idea di rimuovere l’uomo dal nostro sguardo, ovvero di smettere di usare gli umani come misura di tutte le cose. Penso che dovremmo fare un tentativo. Ma sono inquieta rispetto a ciò che troveremo. Penseremo che un gatto ha altrettanta importanza di un bambino? E questo che effetti avrà sul modo in cui trattiamo i gatti e i bambini? Non so come cominciare a rispondere a queste domande, e quindi le lascio aperte. Ma anche se trovo scomodi questi dubbi, non sono ancora disposta a ritrattare la mia idea. Ho l’impressione che gli umani debbano riconsiderare il loro posto nel mondo, e la mia idea è un modo per cominciare.

Una mucca in vacanza

C’è un’ultima storia che voglio raccontare. Alcuni giorni fa stavo tornando dalla costa in macchina quando vidi una mucca con le mammelle gonfie come un pallone che toccavano quasi terra. Il resto della mandria avanzava pascolando sul fianco della collina. Lei arrancava dietro le altre, muovendosi lentamente, le zampe posteriori divaricate sulle enormi mammelle. Ma continuava ad avanzare verso la mandria. Accostai, feci inversione e tornai indietro perché il mio compagno potesse vederla. Poi ci mettemmo alla ricerca del fattore. Pensavo che la mucca stesse male o che qualcuno avesse dimenticato di mungerla. Avevo paura che scoppiasse.

Trovammo un fattore qualche chilometro più in là. La mucca non era sua, ma ne aveva altre come lei. Ci disse che durante gli ultimi due mesi della gravidanza, i vitelli si sviluppano fino a raggiungere una dimensione pari a due terzi quella della mucca. Durante quel periodo, gli allevatori di mucche da latte smettono di mungere le mucche gravide in modo che la mucca abbia molto latte per il vitello. «Lo chiamiamo ‘andare in vacanza’», disse il fattore.

«Ma è sicuro che stia bene?» chiesi, e descrissi di nuovo le condizioni della mucca.

«È così che diventano, soprattutto le più vecchie», mi disse. «Le sue mammelle cominceranno a restringersi tra una settimana circa».

Non sono riuscita a scacciar via dalla mente l’immagine di quella mucca. Vorrei riuscirci. Ogni volta che penso al gelato, al formaggio, al calcio, vedo quella mucca sforzarsi per seguire le altre sulla collina.

Problemi seri

«Come puoi preoccuparti di gatti e mucche quando le donne ancora non hanno raggiunto l’uguaglianza politica ed economica?» Continuo a pormi questa domanda. Le fa eco un’altra domanda: «Come puoi pensare all’uguaglianza delle donne quando la gente in Nicaragua viene uccisa in nome tuo?»

Queste domande non presuppongono forse la superiorità della sofferenza umana? Forse dovrei solo ignorarle. Ma anche se riconosco pienamente l’importanza della sofferenza degli animali non umani, voglio continuare a pensare alla sofferenza delle donne e dei Nicaraguensi. Visto che la vita è breve, voglio trovare un modo per rendere compatibili le mie preoccupazioni. Mi vengono in mente alcune connessioni. Penso al mio compagno che dice «una volta avrei sparato al gatto». Avrebbe ucciso un gatto per «proteggermi» dal fastidio della sua urina. Un altro amico mi parla di suo padre in Illinois. Le donne della famiglia, spaventate da serpenti inoffensivi, lo chiamavano mentre lavorava nei campi perché li uccidesse. Uccidendo animali, quest’uomo «protegge» le donne. Uomini e donne, entrando in questi ruoli, consolidano la struttura di potere che mantiene soggiogati le donne e gli animali. Le donne sembrano impotenti senza l’uomo, persino di fronte ad un serpente inoffensivo, o a un gatto. Da sempre le donne permettono e addirittura chiedono all’uomo di uccidere in loro nome. E allora, quando il governo ci dice che il Nicaragua è pericoloso, le donne non tendono a lasciare la questione in mano agli uomini?

In quanto persona che vuole fermare l’oppressione in tutte le sue forme, trovo utile studiare un sistema di oppressione in cui non ho un ruolo di vittima. Analizzando le mie relazioni con gli animali domestici mi rendo conto del beneficio che traggo dall’oppressione. E vedo i lacci che mi legano all’oppressione. Non posso semplicemente rinunciare al ruolo di oppressore finché il sistema della domesticazione non cambia. Ma il fatto di non poter porre fine da sola a tutti i sistemi di oppressione non può impedirmi di descriverli, loro e la sofferenza che causano alle loro vittime, che si tratti di un essere umano o di una gatta.


Note

Ringrazio Pat Demery, Sterling Bennett e Philip O. Temko per i loro commenti sulle versioni precedenti di questo saggio.

1. La mia metodologia è stata ispirata da Joyce Trebilcot, «Dyke Methods», Hypathia, 3 (estate 1988), pp. 1-13.

2. Per una storia che parla di un cavallo solitario, v. Alice Walker, «Am I Blue?», in Irene Zahava, Through Other Eyes: Animal Stories by Women, The Crossing Press, Freedom, California, 1988), pp. 1-6.

3. Nel Noddings, Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, University of California Press, Berkeley 1984, p. 5.

4. Ivi, p. 87.

5. Ibid.

6. Mutley era già stata separata dalla sua famiglia quando la adottai al rifugio. Turtle faceva parte di un mucchio di gattini abbandonati che avevo trovato sulla strada di campagna vicino casa. Mentre tornavo a casa dall’università in una sera nebbiosa li vidi ammassati in mezzo alla strada, come se aspettassero che chi li aveva fatti scendere lì tornasse a riprenderli. Ne demmo in adozione due e tenemmo Turtle e Myrtle, che morì alcuni anni dopo.

7. Marilyn Frye, «Oppression», in The Politics of Reality: Essays in Feminist Theory, The Crossing Press, Trumansberg N.Y. 1983, pp. 1-16.

8. Ivi, pp. 10-11.

9. Alice Walker, The Color Purple, Washington Square Press, New York 1982, p. 178.

10. Ivi, p. 179.

11. La visione di Dio propria a Shug implica anche che dovrei attribuire un valore anche ai boschi, all’acqua e alla terra stessa. Ma una discussione di queste ulteriori implicazioni andrebbe al di là dello scopo di questo saggio.

12. Per maggiori riflessioni sugli ideali e l’azione, v. Ellen Bring, «Moving Towards Coexistence: an Interview with Alice Walker», in The Animals’ Agenda, Aprile 1988, p. 6 e segg.

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