Di Marion Vicart.
Traduzione: Agnese Pignataro
Questo articolo è stato pubblicato nella rivista Horizon-Sociologique.org, n°2/maggio 2009.
Da secoli, le frontiere dell’umanità e dell’animalità sono state elaborate intorno al tema filosofico della «condivisione della sofferenza» allo scopo di mostrare che l’animale è capace quanto l’essere umano di sentire fisicamente il male che gli viene inflitto. I filosofi indicano allora il dolore e la paura intensa come punti di incontro tra l’umano e l’animale piuttosto che il piacere o la tranquillità. Nelle scienze sociali, la tendenza sembra essere la stessa. Infatti da tempo l’animale viene studiato in antropologia soprattutto attraverso l’analisi del suo status – poco invidiabile – in seno alle attività umane spiccatamente significative: sacrificio religioso, gioco cruento, consumo culinario, assistenza nel lavoro, etc.: tutte attività provviste di «gesti cerimoniali» la cui funzione è riunire gli esseri umani nella realizzazione di pratiche rituali dai significati profondi, il cui svolgimento necessita di un «equipaggiamento» animale. Questi studi si concentrano di fatto su delle situazioni «drammatiche» nelle quali ciò che è vitale, eccitante e divertente per l’umano diventa mortale per l’animale1. Perché un tale oscuramento delle relazioni umano-animale? Esiste un mezzo per cogliere un altro aspetto dei rapporti interspecifici, e più precisamente degli incontri tra umani e non umani, che non sia fondato sull’affaccendarsi umano e sul silenzio degli animali2?
A nostro avviso, la questione è che la coabitazione di umani e animali viene spesso presentata nella forma omogenea di un vissuto collettivo, condiviso da tutti gli individui di una comunità. Claude Lévi-Strauss mostra ad esempio che le pratiche nei confronti degli animali domestici si armonizzano all’interno di una cultura – in Occidente «il bestiame è trattato più apertamente da oggetto, il cane come soggetto» – ma possono variare su scala planetaria – «la situazione è diversa tra i pastori africani che trattano il bestiame come noi trattiamo i cani»3. Altri ricercatori, come F. Héran4, si servono delle nomenclature delle categorie socioprofessionali per determinare delle «famiglie» di comportamenti verso gli animali domestici nella società francese. Malgrado l’interesse di questi studi, è tuttavia necessario notare che questo modo di evidenziare gesti umani rivolti all’animale nella forma di pattern di azione collettiva fondato su logiche culturali (Lévi-Strauss) o sociali (Héran) conduce a minimizzare le variazioni individuali e la componente personale dei comportamenti.
Ora, se «la ricerca dello stare bene (bonheur) è forse ciò che più ci accomuna»5, il vissuto del benessere comporta tuttavia una dimensione personale6. Infatti l’aspetto interessante del concetto di «stare bene» è che invece di aprire una riflessione sulla condivisione dell’«avere», esso conduce innanzitutto a interrogarsi sull’«essere»7. È inevitabile che la questione dell’«avere» – comune in sociologia e in antropologia – porti a fare un conteggio di ciò che gli uni (gli esseri umani) possiedono in comune (rappresentazioni, conoscenze, costumi, usi, etc.) a scapito di ciò che gli altri (gli animali) non possiedono, sfociando di fatto su una inaggirabile asimmetria uomo-animale nella descrizione e nell’analisi. La questione dell’«essere» permette invece a nostro avviso di equilibrare i due «poli», perché entrambi, sia l’essere umano che l’animale, «sono», vale a dire sono presenti in situazione secondo un modo d’essere specifico alla loro specie, modo che può allora essere descritto e messo a confronto a partire da un lavoro di osservazione fenomenografica.
Intravediamo allora un abbozzo di definizione: con «stare bene» si intenderà un preciso modo d’essere dell’essere umano insieme all’animale di compagnia in cui, nello spazio di un minuto o di un’ora, alla condizione permanente di tranquillità quotidiana (proposto da A. Piette8) è associata una sensazione di piacere e di divertimento. Ma questa definizione di «stare bene», caratterizzata dunque per l’umano come uno stato di tranquillità, è adatta a contrassegnare lo «stare bene» animale? La specificità del modo di esistenza dell’animale non richiede al contrario di pensare che quest’ultimo abbia un’altra maniera di essere felice? In questo spirito, pensare lo «stare bene» dell’animale e quello dell’umano in termini di differenza è, come notano V. Despret e J. Porcher9, pensare in che modo si è diversi «insieme», e non «contro», come vuole in genere un certo pensiero della differenza. È a partire da questa riflessione che si sviluppa l’oggetto del presente articolo, nel quale intendiamo svolgere un’analisi dello «stare bene tiepido». Occorre dunque precisare quest’ultima nozione.
Lo stare bene dell’essere umano nell’incontro ordinario con l’animale ci sembra differire dalla gioia collettiva sprigionata dalla folla in occasione di un fatto eccezionale. Inoltre questo stare bene non ha luogo in una situazione di emergenza o di rischio: è diverso dall’esaltazione emotiva della persona – per questo lo definiamo «tiepido» – perché non si esprime attraverso delle tensioni o delle passioni ferventi come nell’esercizio di un’attività estrema o in occasione di un evento singolare. Così, nel momento in cui si considera lo stare bene come una maniera d’essere rilassata e gioiosa dell’umano, si può facilmente pensare che esso possa essere rintracciato nell’individuo attraverso i suoi piccoli gesti. Difatti, come vedremo oltre, l’allentamento del coinvolgimento della persona10 e la dispersione temporanea della sua attenzione rispetto alle finalità collettive per una breve «parentesi di benessere» (bonne heure)11 con l’animale, sono visibili sul corpo attraverso la singolarità e i dettagli del comportamento. Di conseguenza, il lavoro fenomenografico, che mira ad una descrizione minuziosa della realtà, ci sembra adatto a studiare lo stare bene dell’umano nella quotidianità dei rapporti con l’animale.
Riscontrare lo «stare bene tiepido» in situ
Nell’ambito delle nostre ricerche sulla quotidianità delle relazioni umano-cane, abbiamo condotto diverse osservazioni empiriche, una delle quali sarà esaminata in questo articolo: si tratta di un pranzo di famiglia all’aperto. In questo contesto, abbiamo rilevato le pratiche normative e i codici gestuali relativi alla finalità principale del contesto (il pasto) su cui gli individui erano concentrati. Abbiamo anche scelto di usare la fotografia per «cogliere» in modo aleatorio alcuni elementi provenienti dalla breve scena che si svolgeva sotto i nostri occhi. Per cui, pur conservando il riferimento al ritmo dello svolgimento generale dell’attività delle persone focalizzate sull’andamento del pasto, la fotografia ci ha permesso di concentrarci sui «margini» della scena principale, i quali fanno apparire una corta sequenza di interazione tra un commensale umano (Cédric) e il cane che si trova ai suoi piedi.
La fotografia ha effettivamente permesso un allargamento del nostro punto di vista e, quindi, un cambiamento nel nostro atteggiamento visuale riguardo alla situazione osservata, giacché essa ci ha aiutato a rilevare ciò che, per l’interagente ordinario, non era oggetto di focalizzazione cosciente e restava spesso fuori dalla percezione: gli oggetti o gli esseri insignificanti, elementi del «fondale», spesso rapidamente scartati come dettagli senza importanza dal ricercatore il quale, in genere, si concentra sulla scena principale con gli «esseri umani tra loro». Questa tecnologia ci è anche servita a catturare con un click gli indizi cinesici, cioè i gesti fugaci, non direttamente concentrati nell’azione, come gli scarti, le esitazioni, i momenti di disattenzione, di fantasticheria, di distrazione delle persone, i quali indicano il loro coinvolgimento particolare in quanto esseri individuali.
Inoltre, le legende che accompagnano le foto propongono una descrizione fenomenografica delle posizioni, dei comportamenti, degli sguardi, della mimica e delle espressioni facciali dei protagonisti, un lavoro di micro-descrizione ispirato allo studio di Birdwhistell sulla «scena della sigaretta»12. L’interesse dell’approccio fenomenografico risiede nel fatto che esso non si preoccupa di designare l’azione riferendosi a ciò che si nasconde «dietro» di essa, nella sfera mentale. Tale approccio mira semplicemente a descrivere i cambiamenti di posizione, l’espressività e i movimenti del corpo «in corso» nella loro logica di avvicinamento e di contatto13, in unità molto precise senza tuttavia precipitare in una spiegazione atomistica che ridurrebbe d’emblée questi corpi alla loro anatomia impedendo così qualunque spiegazione sociale del comportamento individuale. In questo senso, le nostre conoscenze personali associate ai saperi etologici sul cane14 ci permettono di comprendere e di descrivere in modo dettagliato ciò che quest’animale fa nell’asse di interazione che esso condivide «qui ed ora» con l’essere umano15, senza tuttavia che si finisca ad usare concetti generali carichi di astrazione e ambiguità, come «coscienza» o «pensiero»16. La nostra descrizione dell’interazione tra l’uomo ed il cane potrà così mantenere legittimamente l’imparzialità, a condizione che la sociologia resti connessa all’etologia intesa nel modo che abbiamo appena accennato.
Infine interverranno altre descrizioni più «analitiche» per introdurre ogni sequenza di foto. Esse si baseranno soprattutto sul modello della teoria del frame (contesto di comprensione; letteralmente: cornice) di E. Goffman17.
«Ogni esperienza umana rinvia, secondo Goffman, a un dato frame, condiviso in modo generale da tutte le persone presenti; questo frame orienta le loro percezioni della situazione così come i comportamenti che esse adottano rispetto ad essa.»18
Si parla allora di framework quando i diversi frames che organizzano l’esperienza umana si trasformano. Il framework mostra dunque in che modo l’esperienza di un individuo si scompone in diversi strati: un frame originario può essere trasformato attraverso il framework in un frame secondario senza che ciò dia luogo a una rottura tra i due. Di conseguenza, la teoria del frame ci permetterà di comprendere la dinamica della situazione del pranzo che sarà osservata mettendo in luce le sottili combinazioni dei frames che la costituiscono. Come vedremo, è attraverso queste combinazioni che si realizzano le fluttuazioni di coinvolgimento del soggetto che lo conducono alla diversione. Ed è proprio la diversione con l’animale che ci interessa in questa sede, nella misura in cui essa delimita la «parentesi di benessere» (bonne heure), ovvero quella breve sequenza co-occorrente all’attività normativa in cui l’uomo interagisce con il cane secondo specifiche modalità di azione.
Fenomenografia dello «stare bene tiepido»: il dispiegarsi di un istante
Foto n°1: il pranzo quotidiano di una famiglia è una situazione ritualizzata che comporta un insieme di regole ordinarie (mangiare con la forchetta, restare seduti sulla sedia, etc.) e di oggetti che formano un «piano»19 il quale permette alle persone di orientarsi per sapere cosa è opportuno fare nel contesto in questione. Il pranzo è dunque un’attività banale la cui struttura di base viene interiorizzata dalle persone sotto forma di automatismi che consentono loro di svolgere più compiti nello stesso tempo20. Durante questa scena all’aperto, ogni partecipante sembra concentrare la sua attenzione sui gesti relativi al pranzo (frame principale). Tuttavia, le persone non sono completamente assorbite da questa attività. I movimenti di ognuno vengono quindi eseguiti con una certa fluidità, poiché tutti sanno più o meno ciò che bisogna fare affinché il pranzo si svolga «normalmente».
1. All’inizio Cédric (di profilo) ha l’aria attenta. Il corpo è eretto, collocato di fronte al fulcro della sua attenzione. Ai suoi piedi c’è il cane, steso per terra, che esplora intorno a sé con gli occhi in funzione degli stimoli esterni che suscitano la sua attenzione. Il suo torace è eretto e la testa continua a muoversi da entrambi i lati. Le orecchie e il naso si agitano mentre gli occhi «frugano» intorno a lui. È possibile immaginare una sorta di muro invisibile (rappresentato dalla linea bianca) tra Cédric e il cane per marcare la loro indifferenza reciproca immediata. Tale muro immaginario delimita anche l’orientamento della scena: da un lato c’è l’attività principale sulla quale gli esseri umani sono tutti ugualmente concentrati (la «cerchia» del pranzo) e dall’altro c’è il cane insieme agli altri dettagli dello sfondo rispetto alla scena principale. Presente nella modalità della «presenza-assenza», l’animale è lì, molto vicino, senza però attirare lo sguardo degli umani.
Foto n°2: dopodiché, ecco il «parassita». Non appena Cédric lancia un rapido sguardo di sbieco verso il cane, una finestra si apre tra i due (il «muro immaginario» diventa tratteggiato e comincia a spostarsi). Si tratta qui di una attenzione non inerente al contesto che non è suscitata da uno stimolo esterno ma piuttosto da un momento di attesa soggettiva del giovane. Quello sguardo distratto segna allora la presa di distanza di Cédric rispetto al frame principale. Visto che i principî di organizzazione del pranzo presuppongono una certa stabilità, Cédric si permette questo allentamento dell’attenzione. Così, questi «appoggi di “riposità”»21 relativi al pranzo gli forniscono dei punti di equilibrio stabili che rendono possibile un margine di manovra nelle azioni, ed egli si sottrae poco a poco alle finalità e agli obblighi connessi a questa attività collettiva. I comportamenti cominciano a farsi faceti: senza uscire completamente dalla cornice comune dei gesti rituali del pranzo, il suo sguardo decentrato indica che se ne sta allontanando, che la sua attenzione si disperde. Questa foto mostra dunque l’inizio di un framework.
2. Il viso di Cédric è ancora relativamente serio. Il busto è eretto, rivolto verso la tavola, la sua posizione è sempre un po’ rigida. La testa si gira verso il cane ma resta dritta, solo gli occhi si abbassano. Le labbra ricadono leggermente verso il basso. Il cane non fa attenzione all’uomo. I tratti del suo viso sono neutri, le orecchie rilasciate, il naso si agita un po’. Non reagisce più ai dettagli dell’ambiente circostante. Le palpebre sbattono pesantemente, il corpo si affloscia. L’animale comincia ad addormentarsi.
Foto n°3: A questo punto Cédric modula individualmente il proprio comportamento per interagire con il cane ai margini della scena principale. Il suo modo di essere presente con il cane interviene a modificare la «consistenza» della sua postura che diviene più rilassata. Questa lateralizzazione dell’attenzione di Cédric viene illustrata dallo spostamento del muro immaginario attualmente collocato tra le altre persone e lui. Tale spostamento permette di vedere che Cédric si allontana ancora un altro po’ dal fulcro della scena del pranzo. Esso segna anche la sua entrata in un’attività secondaria personale con il cane senza per questo chiudersi alla finalità dell’attività principale (perciò il muro immaginario resta tratteggiato ad indicare che Cédric tiene d’occhio la situazione nel caso in cui essa lo richiami). Cédric fa un piccolo verso con la bocca per attirare l’attenzione dell’animale. Con un sussulto, il cane gira la testa verso di lui e lo fissa con aria interessata. Il corpo del cane torna ad esprimere tensione e vigilanza, ma stavolta si focalizza sull’uomo piuttosto che sull’ambiente. L’uomo cerca di trattenere l’attenzione del cane sussurrandogli qualche parola con tono infantile e offrendogli un pezzo immaginario di cibo, fingendo di prenderlo con la punta delle dita.
3. Cédric guarda il cane sorridendo leggermente di fronte alla sua ingenuità. I tratti del suo viso sono meno rigidi che nella foto precedente: le sopracciglia non sono più contratte e gli zigomi si rialzano. Ha l’aria tranquilla, la sua posizione diviene rilassata: il braccio sembra morbido, il busto, sempre rivolto verso la tavola, si curva notevolmente, la testa si abbassa un po’ di più verso il cane indicando che una certa attenzione viene accordata a quest’ultimo.
Le espressioni facciali del cane sono anch’esse importanti perché l’uomo le riconosce e se ne lascia coinvolgere: esse partecipano quindi allo sganciamento più pronunciato di Cédric rispetto all’attività principale e al suo coinvolgimento nella diversione ludica. Il cane osserva di fatto la mano umana con un’aria incuriosita e la annusa: le sue orecchie si drizzano, le sopracciglia si alzano e gli occhi si spalancano. I tratti della sua faccia sprigionano allora un carattere infantile (occhi rotondi, sguardo attento, faccia paffuta, etc.) che intenerisce e diverte l’essere umano22.
Foto n°4: I punti di riferimento e i supporti di Cédric in merito all’evoluzione del pranzo lo liberano dall’angoscia e dal controllo rispetto a ciò che si svolge di importante nell’attività collettiva. Durante questo istante furtivo egli può distrarsi ed allontanarsi dalla scena principale senza rischiare di disturbarne lo svolgimento. È allora in questo gioco di interstizi che la modalizzazione del frame può realizzarsi attraverso l’aggiunta di uno strato ludico allo strato predominante. Per questo l’interazione con il cane prende il carattere di uno scherzo (Cédric inganna il cane con allegria) e di una finzione (Cédric parla al cane come se fosse una persona). Il giovane continua a parlare all’animale a voce bassa con termini che non hanno nessun contenuto referenziale («Cos’è questo, eh? Di’ un po’ nonnetto… cos’è questo?») suggerendo così, paradossalmente, di sapere bene che il cane non è una vera persona che interpreti il senso delle sue parole e che sia in grado di rispondergli. Il che significa che l’interazione tra l’uomo e il cane racchiude un carattere paradossale che tuttavia non porta allo stallo dell’azione principale (il pasto), ma intraprende una nuova azione, in una modalità inedita. E malgrado essa sembri isolata dall’attività del pranzo – dal momento che le azioni dell’uomo e del cane non vi si integrano – tale interazione non la ostacola. A dire il vero, la sua autonomia è relativa perché, pur formando un nuovo frame ludico-fittizio, essa si riferisce nello stesso tempo alla cornice principale della pratica del pasto con cui essa resta connessa.
4. Cédric gioca con l’animale solleticandogli le orecchie. Il suo viso assume allora espressioni semplici di piacere e rilassatezza. Il sorriso, la tenerezza e la cura apportano tale leggerezza alla situazione. Le posizioni del cane non sembrano indicare che sia felice: probabilmente è soddisfatto di essere direttamente al centro dell’attenzione umana ma mostra attraverso la sua mimica facciale di non apprezzare completamente che gli si tirino le orecchie, e gira la testa per liberarsi dal contatto fisico. Malgrado la sua partecipazione resti calma, il suo corpo è più teso che nella foto n°2, nella quale lo abbiamo definito «afflosciato».
Conclusione
Il dispiegarsi di questa sequenza grazie allo strumento fotografico impiegato in una prospettiva fenomenografica permette di comparare le modalità di presenza dell’umano e dell’animale e mostra quindi che il modo di essere presente nell’interazione non si traduce nello stesso modo nell’uomo e nel cane. Nel caso di Cédric, si tratta di una forma di tranquillità dell’essere che si manifesta nel corpo attraverso il rilassamento muscolare e la comparsa di espressioni connesse con il piacere. Pur conservando una qualche forma di partecipazione nell’attività stabile del pranzo, l’uomo si stacca dalle finalità e dai vincoli normativi per distrarsi tranquillamente creando uno spazio personale e ludico insieme alla presenza animale. Così, questo gioco sottile del soggetto nella sua maniera di farsi coinvolgere da una situazione ne caratterizza la modalità di presenza rilassata23. Al contrario, per il cane l’entrata nell’interazione con l’uomo si realizza attraverso un comportamento interessato che rende il suo corpo e i tratti facciali un po’ più contratti e che lo sottrae allo stato di «sonno provvisorio» nel quale si adagia la maggior parte del tempo in cui «non fa niente». Il confronto delle descrizioni relative al cane mostra che esso passa da uno stato di attenzione focale associato a una breve contrazione del corpo data dall’inquietudine24 (foto n° 1, 3, 4) a uno stato di passività che si esprime attraverso un addormentamento rapido (foto n°2). Di conseguenza, l’attenzione del cane si sposta dalla pertinenza alla non-pertinenza. Sembra allora che esso, contrariamente all’uomo, non possa riuscire ad essere presente nella modalità del comportamento a latere, nell’intermezzo della diversione, dal momento che non avrebbe abbastanza punti di riferimento stabili (regole, oggetti, etc.) ai quali appoggiarsi per fare cose diverse da quelle in rapporto con il fulcro della situazione. Essendo l’ambiente imprevedibile e instabile, sembra che il cane cerchi ininterrotamente di decifrare dei punti di equilibrio precari sui quali poter appoggiarsi per passare all’azione. Per lui, allora, ogni elemento sembra rappresentare una fonte di tensione che interviene a suscitare in lui inquietudine e nervosismo (un rumore, un movimento, un odore, la mano di Cédric…), o, inversamente, il «vuoto» dell’inattività25 sprofonderebbe l’essere animale in uno stato di sonno senza fatica non appena esso si trovi a non far nulla. Ora attento, ora indifferente, il concatenarsi delle azioni canine nello svolgimento delle situazioni sembra dunque più frammentato se paragonato alla fluidità dei movimenti umani. Sono proprio tale fluidità e tale leggerezza dell’essere che caratterizzano la presenza dell’uomo contento nella sua relazione con il cane. Certo, l’animale canino è ben capace di provare gioia ed entusiasmo, ma non si tratterà di «stare bene tiepido» come maniera d’essere serena e contenta, si tratterà piuttosto di uno stato presente di eccitazione gioiosa nel quale esso entra momentaneamente durante il gioco26. Al contrario, un rilassamento divertito, un sorriso accennato, questo è lo «stare bene tiepido»: un sentimento umano di esistenza che permette di scherzare, ironizzare, sentirsi bene in modo tranquillo nello scambio con l’animale pur continuando ad essere coinvolto nell’attività iniziale con altri umani. Un modo per l’uomo di essere in pace nel momento in cui l’emanazione della sua individualità – la sua singolarità comportamentale – durante un momento di diversione con l’animale non è fonte di tensione con il contesto generale della situazione.
La presenza canina sprigiona dunque delle qualità interessanti per capire la modalità d’essere dell’umano: essa rasserena senza stordire e stimola senza risultare opprimente. Essa rappresenta un dettaglio senza importanza nella situazione, al quale l’essere umano può rivolgere attenzione senza aver bisogno di fare un grosso sforzo di riflessione. Difatti, il cane è un essere incapace di giudicarci o di criticarci, che non arriva a «penetrare» nei nostri pensieri. La sua presenza non richiede dunque le esigenze di reciprocità e di riflessione attese nelle interazioni tra adulti umani: su di essa si possono rapidamente chiudere gli occhi27. Tuttavia, pur costituendo un dettaglio riposante, essa è anche una presenza animata che, con la sua creatività espressiva, sorprende e interessa l’uomo garantendo l’intenerimento e il divertimento di quest’ultimo: essa ci attrae nello spazio «brioso» della diversione ludica, in modo probabilmente più intenso di un qualunque altro oggetto perché ci colloca in una relazione interattiva che ci avvince e ci coinvolge.
Attraverso questa analisi comparata dei modi d’essere dell’umano e del cane così come dei loro modi di compresenza in questa situazione all’aperto, vediamo progressivamente apparire le specificità di ciascuno. L’approccio fenomenografico offre dunque dei piani di analisi considerevoli per le scienze sociali poiché dà la possibilità di poter seguire da vicino e descrivere dettagliatamente gli esseri umani e non umani, in particolare gli animali, senza dover rinunciare alla specificità della presenza di questi ultimi. Con i metodi classici dell’etnografia, che consistono nel descrivere le attività significative e pertinenti per i soggetti (umani), probabilmente non saremmo stati in grado di cogliere questo istante furtivo di star bene con l’animale perché esso si situa al di qua di ogni finalità di senso e di pertinenza. Certo, questo istante è solo una parentesi senza conseguenze per le finalità della situazione (il pranzo), ma lascia tuttavia intravedere l’umano nelle sue modalità di presenza altre rispetto a quelle più convenzionali (in cui è soggetto razionale, composto, vigile, etc.) e ci presenta l’animale in situazioni nelle quali non si ritrova ad essere oggetto di un’utilizzazione significativa da parte dell’umano, liberando così la sua presenza dalle costrizioni legate a quel genere di situazioni (lavoro, assistenza, sorveglianza, etc.). Sarebbe impossibile capire i rapporti tra uomo e cane senza evocare questi brevi istanti innocenti di leggerezza in cui, come scrive Milan Kundera(28), non far niente (d’importante) non è sinonimo di noia ma di pace.
Note
1. Cf. M. Vicart, « Quand l’anthropologue observe et décrit des journées de chiens », in Penser le comportement animal. Contribution à une critique du réductionnisme, a cura di f. Burgat, Co-édition Quæ 2010, pp. 253-277.
2. E. de Fontenay, Le silence des bêtes, Fayard, Paris 1998.
3. C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, pp. 272-273 (trad. it. Il pensiero selvaggio, EST 1996, p. 224 (prima edizione Il Saggiatore, Milano, 1964, traduzione di Paolo Caruso).
4. F. Héran, «Comme chiens et chats, structures et genèse d’un conflit culturel », Ethnologie française, 18 (4), 1998.
5. A. Comte-Sponville, Le bonheur, désespérément, Pleins Feux, Paris 2000, p. 9.
6. «Il piacere è una questione privata. […] Siamo in grado di dimostrare che il piacere è indeterminato e non si presta a strategie collettive», O. Giroud-Feligner, À la bonne heure. Être heureux, Seuil, Paris 1997, p. 60.
7. Non è forse più corretto dire «sono felice» piuttosto che «ho piacere»?
8. A. Piette, Petit traité d’anthropologie, Socrate Éditions Promarex, Marchienne-au-Pont 2006.
9. V. Despret, J. Porcher, Être bête, Actes Sud, Arles 2007, p. 80.
10. Cf. C. Rémy, »Fictionnalité, singularité et liturgie: micro-ethnographie d’une messe catholique et d’un culte protestant luthérien », ethnographiques.org, n° 4/nov. 2003.
11. O. Giroud-Feligner, op. Cit
12. R. Birdwhistell, «Exercice de kinésique et de linguistique: la scène de la cigarette», in Winkin (a cura di), La nouvelle communication, Seuil, Paris 2000, pp. 160-190.
13. A. Kendon, Conducting Interaction, Cambridge University Press, Cambridge 1990.
14. Per un’analisi etologica delle competenze sociocognitive e della capacità di interazione del cane si vedano i lavori recenti di Miklosi et al. (2000; 2004; 2005) e l’articolo di B. Hare e M. Tomasello «Human-like social skills in dogs?» in Trend in Cognitive Sciences, settembre 2005, 9/9, pp. 439-44.
15. M. Vicart, « Faire entrer le chien en sciences sociales », Interrogations?, n°1/dic. 2005, p. 131-136.
16. Per esempio, come sottolinea F. Joulian (1998), descrivere uno scimpanzé che schiaccia una noce per mezzo di una pietra richiede un lavoro considerevole di distinzione tra la proposizione «schiacciare la noce» (che corrisponde alla descrizione dell’azione in corso) e quella «usare uno schiaccianoci» (che contiene l’interpretazione dell’oggetto, suggerendo così che l’animale se lo rappresenta come «strumento», e che finisce per evocare i concetti astratti di «rappresentazione», «tecnica», etc.).
17. E. Goffman, Frame analysis: An essay on the organization of experience, Harper and Row, Londra 1974 (trad. it. Frame analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando, Roma 2001).
18. J. Nizet, N. Rigaux, La sociologie de Erwing Goffmann, La Découverte, Paris 2005, p. 65.
19. L. Thevenot, L’action au pluriel. Sociologie des régimes d’engagement, La Découverte, Paris 2006, pp. 128-129.
20. C. Datchary, « Prendre au sérieux la question de la dispersion au travail. Le cas d’une agence de création d’événements », Réseaux, 22 (125), pp. 175-192.
21. Gli appoggi della “riposità” dell’azione» formano, secondo A. Piette, un insieme di regole, di punti di riferimento e di oggetti che intervengono a stabilizzare la situazione e permettono alla presenza umana di sganciarsi leggermente dai vincoli ad essa collegati: «Le situazioni che gli esseri umani attraversano nel corso della giornata si basano su uno sfondo di punti di riferimento, di ritmi, di vincoli, di obiettivi e di norme. Questi elementi, diffusi e impliciti, plasmano l’azione umana, la quale non deve far altro che svolgersi e, sollevata, sembra appoggiarsi ed esprimere la sua docilità nei dettagli che distraggono e tranquillizzano» (A. Piette, L’être humain. Une question de détails, Socrate Éditions Promarex, Marchienne-au-Pont 2007, p. 71).
22. J. Serpell, In the company of animals: a study of human-animal relationship, Basil Blackwell, Oxford 1986.
23. A. Piette, Le mode mineur de la réalité, Peeters, Louvain 1992.
24. F. Burgat, Liberté et inquiétude de la vie animale, Kimé, Paris 2006.
25. V. Nahoum-Grappe, L’ennui ordinaire, Austral, Paris 1995.
26. È forse in questo senso che va intesa l’idea di Kojève riportata da Giorgio Agamben secondo la quale gli animali non possono essere felici, ma solo contenti in funzione di ciò che si presenta ad essi in una situazione, «visto che per definizione se ne contenteranno» (G. Agamben, L’Aperto, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p.16).
27. M. Vicart, « Regards croisés entre l’animal et l’homme: petit exercice de phénoménographie équitable », ethnographiques.org, novembre 2008.
28. Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, (tr. it. G. Dierna), Adelphi, Milano 1985.