Di Agnese Pignataro.
Chi si oppone alla sperimentazione su animali nella ricerca medica fa in genere uso di argomenti cosiddetti «scientifici», che mettono in discussione la validità epistemologica di tale pratica, ed etici, che ne contestano l’accettabilità sul piano morale. Ai primi argomenti, i sostenitori della sperimentazione animale oppongono una serie di contro-dimostrazioni volte a mostrare l’utilità scientifica della sperimentazione animale, aggiungendovi spesso una contro-accusa malevola agli antivivisezionisti, quella di essere «incoerenti» sul piano etico. Il procedimento argomentativo è questo: visto che la sperimentazione animale è una pratica utile e indispensabile per la ricerca medica, chi la critica e tuttavia beneficia dei risultati di tale ricerca (facendo uso di farmaci, ricorrendo ad assistenza medica…) è colpevole di «incoerenza».
È lecito pensare che gli argomenti scientifici contro la sperimentazione animale siano (anche) un tentativo di sfuggire a questa impasse: difatti, chi è dell’idea che la medicina possa progredire senza ricorrere al «sacrificio» di animali può trovare perfettamente coerente il fatto di ricevere cure mediche, visto che, secondo lei o lui, queste avrebbero potuto essere ottenute in modo non violento. Chi invece si oppone alla sperimentazione animale ma non trova opportuno utilizzare argomenti scientifici contro di essa1 si trova costretto dalla retorica pro-sperimentazione animale a prendere sul serio la questione della coerenza. Precisiamo: si tratta appunto di un’accusa puramente retorica, non priva di una punta di disonestà, giacché svia la discussione dal piano collettivo – il più rilevante, visto che la sperimentazione animale è una pratica esclusivamente collettiva – al piano individuale, spingendo l’interlocutore a fornire giustificazioni relative alla sua vita personale (nonché spesso a scelte molto private). Ovviamente è possibile scegliere di ignorare del tutto tale accusa e concentrarsi sulle implicazioni sociali e politiche della sperimentazione animale. Tale scelta di lanciare l’attacco in tutt’altra direzione ha però il difetto di lasciare completamente scoperto il fianco già mirato dall’avversario; in altre parole, essa lascia pensare che di fronte all’accusa di incoerenza, gli antivivisezionisti, al di là delle (dubbie2) contestazioni epistemologiche della sperimentazione animale, siano semplicemente incapaci di rispondere.
In questo nostro contributo ci proponiamo invece di prendere sul serio l’accusa e di tentare di abbozzare una risposta. Essa ci permetterà di mettere in luce alcuni caratteri importanti dell’agire etico umano pesantemente occultati da dibattiti come quello di cui ci stiamo occupando; tali dibattiti trovano infatti la loro ragion d’essere in una visione presupposta dell’agire morale che, come cercheremo di mostrare, corrisponde poco ai fatti della vita. Nella nostra riflessione, dopo una breve digressione storica, ci appoggeremo in un primo momento all’etica del care e poi al pensiero di David Hume.
In prima battuta, notiamo che l’accusa di incoerenza, se sviluppata fino in fondo, si ritorce su tutti coloro che usufruiscono dei risultati della ricerca medica anche qualora siano completamente indifferenti alla sorte degli animali di laboratorio. Tenendo conto del carattere accumulativo delle conoscenze della scienza moderna e della presenza di elementi aleatorî nei procedimenti di ricerca, è difficile che il beneficiario di un farmaco o di un procedimento chirurgico possa conoscerne con precisione l’intero percorso sperimentale e possa valutarne i costi umani. Non evocheremo casi specifici recenti di sperimentazione umana (come quelli di farmaci testati su soggetti umani svantaggiati a loro insaputa o in condizioni poco trasparenti), ma risaliremo indietro nella storia fino ad arrivare alle radici della medicina moderna: pensiamo allo sviluppo dell’anatomia reso possibile a partire dal Rinascimento grazie allo sdoganamento della dissezione di cadaveri umani. Il passaggio dalla conoscenza basata sui libri a quella basata sull’osservazione diretta della natura che ha dato il via alla scienza moderna è presentato, in modo spesso molto enfatico, come una tappa fondamentale dello sviluppo del nostro sapere e della nostra civiltà. Eppure quando la natura osservata consiste in un cadavere umano, l’operazione non è banale, giacché il rispetto dovuto al corpo defunto è un carattere culturalmente e antropologicamente fondante di moltissime società umane, e particolarmente della nostra fin dai suoi albori (si rileggano i canti XXII e XXIV dell’Iliade); esso marca ciò che è umano, nel duplice senso di human e di humane. Se si guarda all’atto della dissezione di un corpo umano facendo astrazione dalla propaganda delle «magnifiche sorti e progressive» di un certo positivismo scientifico, non è difficile rendersi conto che essa presenta un carattere di profanazione. Quindi, in epoche in cui la nozione di consenso informato era di là da venire, la manipolazione scientifica di corpi morti si poteva ottenere solo accedendo ai luoghi sociali in cui tale rispetto era affievolito, selezionando cadaveri di soggetti verso i quali la società si sentiva meno vincolata. Concretamente, nella Roma del Cinquecento, i cadaveri destinati alla dissezione anatomica provenivano da «condannati a morte, possibilmente impiccati, stranieri o almeno non originari del luogo in cui saranno giustiziati e dissezionati, familiari e amici sufficientemente lontani, appartenenti a classi sociali basse»3.
Tornando quindi alla nostra questione di partenza, potremmo chiederci a questo punto se chi oggi beneficia del sapere medico occidentale debba essere favorevole alla pena di morte nonché essere razzista e classista per potersi dire coerente; e se, viceversa, chi è contro la pena di morte, si professa antirazzista e ha convinzioni egualitarie debba rinunciare a prendere farmaci o ad andare dal dottore per potersi dire coerente4. C’è da aspettarsi che anche il più sfegatato libertario non si riterrebbe vincolato a rinunciare a un farmaco importante per il benessere suo o dei suoi cari in memoria, per esempio, di Frolio d’Alì, africano, impiccato a Roma per furto il 13 gennaio del 1561 e poi dissezionato dai medici della Sapienza, per quanto grave e penosa la storia di costui possa essere immaginata. Arriviamo allora a una prima conclusione: se non vogliamo essere costretti a pensare che tutta la società è incoerente, dobbiamo riconoscere che è la questione della coerenza ad essere malposta. E il motivo è semplice: la coerenza è una nozione logica che non ha presa diretta sul nostro comportamento morale.
La struttura logica dell’accusa di incoerenza è: se A, allora B. Se pensi A (laddove per A si può intendere non solo l’antivivisezionismo ma qualsiasi altra opinione), allora devi comportarti nel modo B. Ora, l’esempio della dissezione anatomica mostra che questa esigenza è esagerata, impraticabile e di fatto impraticata. Se i comportamenti morali dovessero realmente misurarsi con una tale nozione di coerenza saremmo costretti a scegliere tra lo scetticismo morale e l’autodistruzione. Fortunatamente le cose non stanno così. Difatti, nella nostra vita quotidiana noi riusciamo a praticare scelte morali, e questo in virtù del fatto che esse non sono guidate da operazioni logiche, ma da una capacità di pervenire a un aggiustamento tra le nostre convizioni e le situazioni concrete cui ci confrontiamo. In tale aggiustamento non entrano in gioco solo riflessioni astratte, ma anche motivazioni originate dall’insieme delle nostre responsabilità (verso noi stessi e verso gli altri), dalle nostre risposte emotive personali e da una messa in prospettiva di ogni scelta nel quadro globale della nostra vita, come messo in luce dall’etica del care5.
Si pensi al famoso dilemma di Heinz ne In a Different Voice di Carol Gilligan, in cui si chiede se un tale Heinz, impossibilitato a comprare un farmaco necessario per curare la moglie gravemente malata, debba o no rubarlo, e alle diverse soluzioni proposte dai bambini intervistati da Gilligan: il bambino risponde di sì senza alcuna esitazione, in base a un ragionamento astratto secondo cui la vita umana è più importante del rispetto della proprietà altrui; la bambina invece inserisce il dilemma in una cornice narrativa, anticipando le conseguenze del furto sulla trama di relazioni e sulle responsabilità assunte dall’immaginario protagonista (Heinz andrebbe in prigione e non potrebbe continuare ad assistere la moglie) e arrivando così a escludere in modo categorico l’idea del furto in favore della ricerca di soluzioni alternative più concilianti (cercare dei soldi in prestito, trovare un accordo con il farmacista…)6. Seguendo questa prospettiva, schierarsi contro la sperimentazione animale pur continuando a fare uso, quando strettamente necessario, di farmaci o terapie messi a punto grazie a essa è una scelta ragionevole: essa consiste infatti nell’usufruire dei mezzi oggi disponibili per restare in vita e in buona salute al fine di adempiere i propri doveri verso se stessi e i propri cari, così come verso gli stessi animali di laboratorio, disponendo della propria esistenza per battersi allo scopo di cambiare le loro condizioni di vita. Si tratta in fin dei conti di un altro tipo di coerenza, più complessa e concreta, laddove quella presa a modello dal tipo di obiezione a cui stiamo controbattendo è una coerenza parossistica e autodistruttiva. E dunque sterile, perché, così come Heinz sarebbe impossibilitato ad aiutare sua moglie se finisse in prigione per aver scelto la via della coerenza, quale utilità potrebbe avere per gli animali di laboratorio un antivivisezionista coerente ma morto?
La nozione di ragionevolezza appena evocata ci conduce al confronto con la filosofia morale di David Hume. In un passo molto famoso del Treatise on Human Nature (1739-1740) il pensatore scozzese afferma che «la ragione è e deve solo essere schiava delle passioni»7. Questa affermazione non è ovviamente un invito ad abbandonare ogni remora morale in favore delle proprie pulsioni più sfrenate, ma, per essere compreso, va letto nel contesto dell’antropologia humeana. Contro le etiche razionalistiche dell’epoca, Hume afferma che la ragione, intesa come la facoltà di pervenire a conclusioni vere o false sulla base di un ragionamento analitico o di un’esperienza sensibile, non può in sé produrre le azioni, ma solo fornire informazioni che accompagnano le deliberazioni. Queste, a loro volta, sono guidate solo ed esclusivamente dalle passioni, e «quando una di queste passioni è calma e non causa alcun disordine nell’animo, viene molto facilmente scambiata per una determinazione della ragione e si suppone che essa proceda dalla stessa facoltà che giudica del vero e del falso»8. È richiamandoci a quest’ultima immagine della ragione come «passione tranquilla» che abbiamo definito «ragionevole» il comportamento apparentemente incoerente dell’antivivisezionista, laddove la coerenza a tutti i costi fino all’autodistruzione appare come un’opzione «razionale» solo in conformità con una visione analitica della ragione (quella vista sopra secondo cui A=>B), risultando invece completamente sragionevole se valutata con i criterî di cui ci serviamo nella vita di tutti i giorni. Afferma Hume: «Non è contrario alla ragione [sottinteso: analitica] che io preferisca la distruzione del mondo intero piuttosto che graffiarmi un dito; né è contrario alla ragione [idem] che io scelga la mia completa rovina per risparmiare il più piccolo dolore a un indiano o a una persona che mi è del tutto sconosciuta»9. In altre parole, la coerenza della ragione è solo dimostrativa, relativa cioè alla verità o falsità di un giudizio, ma non può applicarsi alla relazione tra idee e azioni. Negli esempi proposti da Hume, i giudizi secondo cui la distruzione del mondo permetterebbe di evitare di graffiarmi e secondo cui la mia rovina gioverebbe a una persona sconosciuta possono essere completamente veri, eppure questo valore di verità, in se stesso, non mi dà alcuna indicazione su ciò che devo, o ciò che è bene, fare. Osserva Eugenio Lecaldano commentando questo stesso passaggio di Hume: «la sola conoscenza intellettuale di per se stessa ci porterebbe o all’immobilità o a ciechi automatismi, o a non essere in grado, appunto, di preferire un graffio al proprio dito alla stessa distruzione del mondo»10.
Questo approccio non ci costringe però nel vicolo cieco del relativismo etico, come si potrebbe pensare. Per Hume come per le teoriche del care la centralità dei sentimenti nell’etica non si traduce nell’idea che tali sentimenti siano irrimediabilmente soggettivi e arbitrarî. Al contrario, l’uniformità riscontrata nei comportamenti morali umani al di là di variabili storiche e culturali suggerisce l’esistenza di princìpi costanti dell’agire etico, ai quali possiamo dare il nome di simpatia, senso morale, empatia, care11. Sono proprio tali princìpi che vediamo in opera nella scelta dell’antivivisezionista di esprimere sollecitudine sia per gli animali di laboratorio, opponendosi alla sperimentazione animale, che per se stessi e per i propri cari, prendendosi cura della propria e della loro salute attraverso le opportunità fornite dalla medicina. Tra l’altro quest’ultimo fatto, lungi dall’essere una manifestazione di egoismo o vigliaccheria come suggerito da chi lancia l’accusa di incoerenza, mostra invece l’estensione della sollecitudine dell’antivivisezionista alla vita umana, e non alla sola vita animale. Laddove la coerenza, provocando la morte per il rifiuto delle cure mediche, mostrerebbe piuttosto un disprezzo della vita umana, disprezzo che i sostenitori della sperimentazione animale attribuiscono a gran voce agli antivivisezionisti; per cui, se questi ultimi accettassero di piegarsi all’esigenza di coerenza, non farebbero altro che il gioco dei loro avversari.
Ci sembra allora di poter dire che la posizione antivivisezionista non è né incoerente né stupida, ma anzi può essere definita sana, giacché essa rimane spontaneamente aliena dall’assurda alternativa proposta dall’approccio della «coerenza», quella tra l’abbandono di ogni preoccupazione morale e l’autodistruzione, preferendovi invece una ragionevole alchimia tra diverse preoccupazioni e responsabilità. Un procedimento che del resto, lo ripetiamo, tutti noi mettiamo in atto costantemente nella vita di tutti i giorni in moltissimi altri contesti.
Note
1. Per esempio, per i motivi che abbiamo spiegati in «Per una critica dell’antivivisezionismo scientifico».
2. Come abbiamo cercato di dimostrare in «Per una società senza cavie» (Liberazioni rivista on line, n. 2) e «Per una società senza cavie – parte seconda: questioni epistemologiche e indagini storiche sulla sperimentazione animale» (Liberazioni rivista on line, n. 4).
3. Andrea Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1994, p. 104. La maggior parte degli individui presenti nei documenti esaminati da Carlino era stata condannata alla pena capitale per furto.
4. Ci si potrebbe obiettare che oggi le cose funzionano in modo diverso e che la ricerca medica attuale soddisfa criteri di rispetto della persona umana. Ora, non solo questo è lungi dall’essere provato, e non solo l’onere della prova spetta a chi lo afferma, ma soprattutto: a partire da quando questo cambiamento di metodi sarebbe riscontrabile, e, di conseguenza, di quali progressi della medicina la persona nonviolenta, antirazzista etc. può usufruire e di quali no per poter aspirare alla palma della coerenza?
5. Per una introduzione sintetica all’etica del care e alla sua applicazione all’etica animale v. Agnese Pignataro, «Ascoltando voci diverse», Diogene magazine n°22/marzo-maggio 2011, pp. 40-43.
6. Carol Gilligan, In a Different Voice, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) and London (England) 1982, 1993, pp. 25-29 (trad. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, trad. it. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano, 1987).
7. David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro II, parte terza, sezione terza «Motivi che influenzano la volontà» (in Opere filosofiche/I, a cura di E. Lecaldano, trad. it. di A. Carlini, E. Lecaldano e E. Mistretta, Laterza, Bari 1987-1993, p. 436).
8. Ivi, p. 438.
9. Ivi, p. 437.
10. Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1991 1998, p. 172.
11. In questa sede intendiamo evidenziare la prossimità tra la visione di Hume e quella delle teoriche del care relativamente alle modalità di approccio dei dilemmi etici. Naturalmente tra le due visioni esistono anche differenze, sia quanto ai presupposti antropologici delle rispettive teorie etiche che quanto alla portata dei sentimenti morali.