Intervista a Florence Burgat di Agnese Pignataro.
Articolo originariamente pubblicato su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 50-53.
Nel suo percorso di ricerca, lei ha messo in luce e denunciato l’indigenza ontologica che la filosofia attribuisce da sempre agli animali non umani. Con la pubblicazione di Liberté et inquiétude de la vie animale (Kimé, 2006), ha mostrato la fecondità del pensiero fenomenologico per sottrarre l’animale a questa indigenza. Può evocare rapidamente il suo lavoro precedente? Perché si è rivolta alla fenonomenologia?
In Animal, mon prochain (Odile Jacob, 1997), sono partita dal discorso sulla differenza tra l’umano e l’animale nella filosofia moderna e contemporanea. Mi è sembrato che si delineassero due grandi strade: quella di un’opposizione radicale (l’animale è definito da ciò di cui è privo, ossia la ragione, l’anima, la coscienza, il linguaggio, e mai nella sua singolarità); e quella di un continuismo tra i due. Ho cercato di mostrare il modo in cui questo discorso produce il concetto di «animalità» e costruisce una visione indigente degli animali che giustifica (o almeno rende non problematica sul piano morale) la loro utilizzazione o sfruttamento. Se da un lato le ragioni per cui occorreva criticare il discorso sulla differenza radicale erano perfettamente chiare, dall’altro ho notato che anche il continuismo porta a una visione indigente degli animali, nella misura in cui essi sono visti come possessori delle qualità e degli attributi riconosciuti all’uomo ma allo stato di abbozzo, di brutta copia. La fenomenologia, dal canto suo, offre gli strumenti che permettono di pensare l’originalità dell’esistenza propria di quei viventi che contribuiscono alla costituzione del mondo, ovvero per i quali le cose hanno un significato, manifestato dal loro comportamento.
Per uscire dalla cornice dualista che abbiamo ereditato da Cartesio, lei rifiuta sia il materialismo che l’evoluzionismo. Quali sono secondo lei i punti deboli di queste correnti di pensiero, dal punto di vista teoretico e morale, nel pensare gli animali?
Rispetto all’evoluzionismo, vorrei precisare che la mia critica si rivolge a quello che ho chiamato l’evoluzionismo del senso comune. Il limite di queste due strade consiste, a mio avviso, nel fatto che esse riaffermano una visione gerarchica degli esseri, perché in entrambi i casi l’essere umano rimane appollaiato in cima ad una struttura, la scala evolutiva, monopolizzando tutti gli attributi e possedendoli in senso pieno. Il materialismo tende a livellare dal basso, per così dire. Il fatto di proclamare che l’uomo è un animale o di parlare di animale umano non mi sembra in alcun modo costituire un progresso nel lavoro di rivalorizzazione dell’essere animale. Del resto, i difensori del materialismo e della continuità finiscono sempre con l’introdurre una differenza ineffabile tra umani ed animali sul piano morale. Un taglio che non può essere fondato su alcun criterio reale ed è quindi in verità ancora più netto.
Lei ritiene che la rottura ontologica fondamentale non si collochi tra l’animale e l’umano, ma tra il vegetale e l’animale: l’animalità costituirebbe una dimensione ontologica nuova in seno al vivente. Per quale ragione?
Il criterio del movimento spontaneo è decisivo. In effetti, l’animale lascia liberamente il luogo in cui si trova per recarsi altrove, «da qualche parte», rendendo questo luogo una contingenza, come direbbe Hegel. Questo spostamento porta l’individuo a percepirsi come un essere separato ed consegnato a un mondo ostile. La vita animale, insomma, affronta la doppia prova della libertà e dell’inquietudine. Accanto a questi criteri, non dobbiamo mai dimenticare che la sensibilità animale, che riveste forme molteplici in funzione delle specie, è diversa dall’irritabilità vegetale. La sensibilità è indissociabile da una esperienza del piacere o del dolore, mentre l’irritabilità è una reazione senza soggetto, che non si manifesta in prima persona. Mi si potrebbe rimproverare di riproporre a mia volta un modello privativo in merito ai vegetali. Non si può tuttavia negare la presenza negli animali di un sistema nervoso centrale, che è la condizione biologica necessaria, anche se non sufficiente, della coscienza.
Contro l’idea di Heidegger della povertà di mondo dell’animale, lei argomenta in favore dell’esistenza di più mondi animali. Ciò che caratterizza fondamentalmente questi mondi è l’incompletezza, per via della distanza spaziale e temporale che separa l’animale dagli oggetti che soddisferanno i suoi bisogni. In questo modo, secondo lei, l’animale è sottomesso alla prova dell’attesa e della pazienza e sperimenta inoltre un senso di finitezza. Non ha l’impressione di spingersi troppo oltre?
Parliamo appunto di un sentimento, e non di una coscienza riflessiva della finitezza. Non si tratta di riconoscere agli animali il sapere concettuale della finitezza, ma un’esperienza vissuta in occasione di questo o quell’evento (la morte di un altro, lo spavento causato da un grande pericolo, l’imminenza della propria morte). È un sentimento che possono avere o no a seconda della loro biografia. In ogni caso, dobbiamo disfarci dell’assimilazione tra l’esperienza vissuta e la rappresentazione che possiamo averne a posteriori e attraverso concetti. La singolarità della vita animale risiede secondo Hans Jonas nel nodo che racchiude la motricità, la percezione e l’emozione; si tratta quindi di una vita che si interiorizza e perde la sua tranquillità. Nessun filosofo si è spinto più in là di Hegel, che scrive che l’animale è pervaso da «un sentimento di incertezza, di ansietà e di infelicità». Questa disposizione non dipende da situazioni contingenti (come la cattività) ma costituisce la condizione esistenziale fondamentale degli animali.
Basandosi sulle analisi di biologi come Jacob von Uexküll o Frederik Buytendijk, lei spiega che ogni mondo animale è regolato da una sua propria struttura di significati. Può descrivere il doppio processo di ricezione e creazione di significati nel soggetto animale?
Per Uexküll è un soggetto ogni individuo che agisce e percepisce, a cui si aprono quindi un mondo della percezione e un mondo dell’azione. Gli animali sono dei soggetti in questo senso. Per loro, esistono degli oggetti rilevanti, ovvero che hanno una connotazione di attività, che chiamano all’azione e che sono dunque dotati di un significato particolare. Uexküll chiama «cerchio funzionale» questa struttura, che collega il soggetto a quegli oggetti che fanno parte del suo mondo. Per spiegare ciò, egli prende come esempio una stanza umana vista da un uomo, un cane e una mosca, per valutare il significato ogni volta particolare che si lega agli oggetti presenti in essa. La tavola non ha la stessa connotazione di attività per l’uomo (scrivere), per il cane (sdraiarvisi sotto) e per la mosca (superficie su cui posarsi). Non esistono oggetti in quanto tali, nè significati unici di un oggetto: ciascuno è portatore di più significati specifici. È il soggetto che dà un significato all’oggetto e non solo sulla base del suo equipaggiamento biologico ma anche in funzione del suo modo di vivere. Penso in particolare agli animali domestici o di compagnia, che abitano due mondi contemporaneamente. Uexküll parla di «luoghi magici» nei quali il cane ama recarsi per ragioni che sfuggono alle spiegazioni oggettive. Si potrebbe arrivare a parlare, con Marc Richir, di una libertà fenomenologica, nella misura in cui gli animali non hanno un punto di vista definitivamente fissato sulle cose.
Seguendo Merleau-Ponty, lei definisce il comportamento come «una relazione dialettica con ciò che lo circonda»: in che modo questa concezione confuta gli esperimenti di laboratorio sugli animali (in particolare quelli behavioristi)?
In laboratorio, vengono indotte reazioni in un contesto vitale costruito in modo analitico. La spontaneità, che caratterizza il comportamento nella sua dimensione di indeterminazione, e la totalità non scomponibile che esso costituisce, sono distrutte. Georges Canguilhem, in La conoscenza della vita (1965), scrive che un «animale in situazione di sperimentazione si trova in una situazione anormale per lui, di cui non ha bisogno in base alle proprie norme, che non ha scelto, che gli viene imposta. Un organismo non è mai uguale alla totalità teorica delle sue possibilità».
Lei evoca la riflessione di Hegel sulla capacità degli animali d’interessarsi agli oggetti lasciandoli sussistere. Dobbiamo quindi pensare che gli animali possiedano una forma di sapere disinteressato?
Per Hegel, gli animali non sono unicamente sottomessi ai bisogni biologici, ma sono esseri desideranti. Nella sua analisi del desiderio animale, Hegel non abbozza una definizione del sapere animale ma di un atteggiamento che alcuni animali mantengono verso le cose in certi momenti. Al di là del fatto che nel desiderare qualcosa l’animale fa esistere questa cosa nel modo del «non ancora», e manifesta dunque un rapporto non immediato nei suoi confronti, Hegel apre un’altra dimensione: una forma particolare di essere presso le cose, di lasciarle essere senza tuttavia restare indifferente ad esse. Egli vede in ciò un atteggiamento contemplativo, che può essere considerato una parte del sapere, a condizione di predisporre nel sapere uno spazio per una modalità non appropriante. Per cui si tratta più di una modalità del desiderio che della conoscenza in quanto tale.
Come Erwin Straus, lei vede la relazione alinguistica tra l’io e il mondo che si manifesta nel sentire come il luogo di una comprensione reciproca tra umani ed animali. Al di là dei mondi di significato propri ad ogni specie esiste dunque anche un mondo in comune?
La questione del mondo è complessa: questo concetto non ha lo stesso senso in Husserl, Uexküll, Heidegger… Per Erwin Strauss, il mondo comune è quello dell’affezione, del sentire e del muoversi. È difficile distinguere ciò che è proprio a ogni specie e contemporaneamente comprendere in cosa siamo una comunità attraverso questo nodo già evocato della motricità, della percezione e dell’emozione. Il mondo comune si dà anche nel mistero dell’attaccamento che si può annodare tra individui non appartenenti alla stessa specie. È un sentiero aperto per la meditazione filosofica.
Lei è vegetariana ed esprime nelle sue opere una indignazione profonda verso le pratiche violente degli umani nei confronti degli animali: in che misura pensa che la filosofia, e in particolare la fenomenologia, possa contribuire a migliorare la condizione degli animali nella nostra società?
Nel mio lavoro si possono distinguere due tipi di testi. Alcuni, piuttosto brevi e direttamente impegnati contro queste pratiche violente, intendono far apparire la mostruosità di un processo nel quale tutto accade come se le catene che conducono alla morte dei miliardi di animali esistessero in un mondo parallelo, dal momento che il nesso tra la moltitudine di prodotti ricavati da queste morti e gli individui morti per essi non si presenta mai alla nostra mente. È come se la cosa non esistesse, e ciò non si deve solo all’invisibilità dell’uccisione, ma al fatto che questa morte non è tematizzata come crimine e a volte neanche come morte. Alcuni altri lavori – e si tratta allora dei miei libri – tentano di contrastare le concezioni soggiacenti a queste utilizzazioni. La fenomenologia fornisce gli strumenti che permettono di far passare gli animali dalla categoria di «semplice vivente» a quella di esistente, per così dire. Ogni animale traccia la propria vita ed è un essere biografico. Occorre far valere questo dato contro la determinazione (storica, scientifica, economica, filosofica) che annienta miliardi di animali terrestri e marini.
Approfondire
Florence Burgat, Une autre existence. La condition animale, Albin Michel, Paris 2012.
Florence Burgat, Liberté et inquiétude de la vie animale, Kimé, Paris 2006.
Florence Burgat, Animal mon prochain, Odile Jacob, Paris 1997.