Articolo originariamente pubblicato su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 57-59.
Dopotutto, il tabù dell’uccisione e dell’ingestione di un congiunto è precondizione fondamentale e primaria perché la gente possa vivere assieme e cooperare quotidianamente.
M. Harris
La zooantropologia, nella versione italiana che, a partire dal saggio Post-human, ne ha dato Roberto Marchesini, si presenta come una nuova disciplina che si caratterizza per avere un oggetto radicalmente diverso rispetto agli studi che si sono sinora occupati della relazione uomo-animale, ovvero l’etologia e l’antropologia. In questa nuova disciplina, infatti, la coppia umano-non umano è considerata come una realtà indivisibile, come un oggetto unitario di studio da cui nel corso del tempo sono emerse le diverse identità; per fare un esempio, non si è mai dato un momento in cui l’uomo incontrò il cane, ma si è costituita nel tempo una relazione fra due specie, che ha dato luogo a ciò che oggi definiamo uomo e cane, e che potrà in futuro evolvere in nuove realtà, ancora da immaginare.
Mettendo in pratica il relativismo temporale che l’evoluzionismo ha introdotto nella definizione dell’identità degli esseri viventi, la zooantropologia abbandona il concetto di natura umana preferendogli quello di antroposfera: un insieme di rapporti con l’esterno che si configurano come relazioni fra soggetti, come pluralità di ibridazioni con l’alterità dove compaiono non solo gli uomini stessi ma anche altri partner, primi fra tutti gli animali e gli strumenti. Di questa relazione con l’altro la zooantropologia sottolinea particolarmente la biunivocità, cioè il carattere attivo dei due soggetti che la costituiscono: una vera e propria partnership che si rende più evidente nelle moderne società fortemente urbanizzate, ma ha un carattere costitutivo nell’ontologia stessa dell’essere umano. Stiamo parlando dunque di una relazione reale e non di un rapporto puramente simbolico nel quale l’animale sarebbe, secondo la fortunata formula di Lévi-Strauss, «buono da pensare», funzionerebbe cioè solo come prima forma di categorizzazione del mondo; in questo caso infatti più che configurarsi come relazione biunivoca il rapporto fra l’uomo e l’animale avrebbe solo una funzione tassonomica.
Ma non siamo nemmeno in presenza di un rapporto puramente strumentale, di un mezzo che risponderebbe a bisogni eminentemente economico-ecologici. È ciò che Marchesini rimprovera all’antropologia di Marvin Harris: il fatto d’interpretare la domesticazione come un processo dettato solo da ragioni di tipo materiale ed utilitario, misconoscendone le caratteristiche di affiliazione intraspecifica e di «rapporto magistrale», cioè di capacità di creare comunità di individui appartenenti a specie diverse legati fra loro da rapporti sia di affetto familiare che di reciproca collaborazione ed insegnamento.
Questo aspetto è sviluppato in Pedagogia cinofila, un testo di zooantropologia applicata nel quale Marchesini distingue due aspetti nella coppia uomo-animale: le potenzialità relazionali, cioè la capacità di creare un legame affettivo e di condivisione di significati, dunque di condividere uno stesso mondo, e le potenzialità referenziali, ossia la trasmissione di capacità e di conoscenze proprie alle diverse specie coinvolte nel rapporto, dunque il saper operare insieme nei confronti della realtà, fornendosi sostegno e modelli di comportamento. Se questi aspetti vanno tenuti distinti, è vero però che le potenzialità referenziali possono emergere solo in un contesto relazionale, in cui vi sia un vero riconoscimento spontaneo e non mera sopraffazione. Questo intreccio relazione-referenza va ben oltre il campo pedagogico: costituisce la caratteristica essenziale del rapporto dell’uomo con l’animale (e con le macchine); si tratta di saperla leggere correttamente, superando la visione antropocentrica che, separando l’uomo dal biologico (dalla «natura»), ne fa un essere totalmente autoriferito, che si realizza tramite l’espressione del suo Sé interiore, piegando così a sé stesso l’apporto delle relazioni esterne.
Marchesini affronta lungamente in Post-human la questione dell’umanesimo separativo e dei suoi esiti nelle contemporanee filosofie transumaniste, che si interrogano cioè sul tramonto del soggetto tradizionale. Il dualismo antropocentrico non sarebbe in realtà che un misconoscimento della reale peculiarità dell’uomo, vale a dire della sua capacità di ibridarsi con l’esterno, di realizzare la sua identità proprio lasciandosi invadere dall’alterità, espandendosi-contaminandosi in una «multividualità». Si tratta di un modo d’essere che è inscritto in alcune caratteristiche tipiche del patrimonio filogenetico, cioè acquisite tramite eredità genetica, della specie umana: il fatto che i suoi piccoli siano particolarmente immaturi alla nascita ed estremamente dipendenti per la loro sopravvivenza dalle cure dei genitori, fa sì che l’uomo sviluppi una straordinaria vocazione all’accudimento dei cuccioli, così forte da travalicare i limiti di specie e trovare espressione anche nella affiliazione di cuccioli animali. Anche il fatto di avere un’adolescenza e una giovinezza più lunghe rispetto agli altri mammiferi aumenta la capacità umana di creare legami particolarmente profondi con l’alterità. Ne deriva un’ontogenesi (il processo di sviluppo dell’individuo che comporta anche le acquisizioni dovute all’apprendimento) particolarmente aperta agli apporti dell’esperienza che rende possibile la realizzazione di società interspecifiche e, in esse, l’acquisizione e la trasmissione di comportamenti nuovi, ovvero la cultura. Una cascata di eventi che dal livello genetico a quello culturale, e senza soluzione di continuità, implementano sempre di più l’apertura verso l’esterno fino ad arrivare all’esplosione ibridativa delle tecnologie contemporanee.
Questa fondamentale «democrazia ontologica» è dunque inscritta nell’essere dell’uomo, è costitutiva dell’antroposfera. Tuttavia non è ciò che ci troviamo di fronte se guardiamo gli effettivi rapporti fra uomo ed animale nelle nostre società. In Oltre il Muro, un testo dei primi anni ’90, Marchesini ha analizzato nel dettaglio la crisi della cosiddetta mucca pazza, le reali condizioni dei non-umani ridotti a meri strumenti al servizio del dominio solitario e incondizionato dell’uomo, un essere la cui anti-natura di fondo si rivela nel vuoto dell’utilità tecnica.
A cosa va imputata allora questa torsione che ha trasformato un dialogo in delirio di potenza? A un fraintendimento: alla lettura che l’antropocentrismo ha dato della relazione con l’altro in una tradizione di pensiero che, se si esprime in tutte le sue conseguenze con il razionalismo di Cartesio, ha origini assai antiche, che risalgono almeno a Platone. Una lettura che non coglie l’essenza della relazione tra umano e non-umano, ignorandone la dimensione di partnership, di dialogo a cui l’animale partecipa in modo attivo. La zooantropologia si propone di svegliarci dall’incubo faustiano di dominio per riscoprire finalmente il nostro essere dialogante: ma la sua proposta riesce davvero a garantire sogni tranquilli?
Se da un lato, come si è detto, la zooantropologia critica il dualismo natura-cultura e l’antropocentrismo che fa dell’uomo qualcosa di completamente separato dal contesto biologico, dall’altro essa prende le distanze anche dal riduzionismo, postulando, pur nella continuità, l’esistenza di una particolarità umana, caratterizzata da una eccezionale ricchezza di virtualità biologica. Poiché i fenomeni di trasmissione culturale sono ormai generalmente riconosciuti anche in alcune specie animali e non possono evidentemente più essere considerati come peculiari e distintivi dell’uomo, ecco che la zooantropologia scova qualcosa di differente anche rispetto alla cultura, qualcosa che avrebbe traghettato l’uomo nell’umano oltrepassando la mera prospettiva filogenetica. Tale particolarità, che permette all’uomo sia di uscire dal suo isolamento di specie, sia di rendere non prevedibile e aperto a qualsiasi storia il suo divenire, è definita antropopoiesi: un processo culturale peculiarmente umano e qualitativamente diverso rispetto ai processi ontogenetici delle altre specie, che aprirebbe all’uomo la possibilità di un divenire che si caratterizza come evento storico. Questo particolare divenire storico sarebbe reso possibile proprio dall’incontro-confronto dell’uomo con le alterità, prima animali e poi tecnologiche: un divenire paradossale, che andando verso l’animale nel contempo se ne allontana, realizzando un’ibridazione che nelle altre specie sarebbe solo abbozzata e in modo così rudimentale da non permettere loro di uscire dalle relative singolarità.
È insomma una curiosa biologia quella che la zooantropologia attribuisce all’uomo, una sorta di ossimoro la cui determinazione è l’apertura a tutte le determinazioni possibili, in una fluidità dove precipitano, per annullarsi e fondersi, tutti i dualismi: la filogenesi è causa ed effetto dell’ontogenesi, la cultura è un aspetto della natura, l’innato è legato a doppio filo con l’appreso, l’evoluzione è una coevoluzione, l’artificiale è solo un altro modo di vedere il vivente, e così via. Ma è proprio questa concezione della specificità umana a indebolire la visione zooantropologica della relazione con l’animale, nel momento in cui questa viene vista tanto come qualcosa di interno alla cultura umana che come prerequisito della cultura stessa, ovvero, come abbiamo appena visto, di quell’apertura verso la libertà che solo uno dei due partner della coppia, l’umano, saprà operare.
Difatti, l’insistenza della teoria zooantropologica sul carattere “perfusivo”, “infiltrativo”, del rapporto con l’alterità animale (un rapporto visto come analogo ai processi psicologici che, partendo dalla relazione con l’altro, portano alla formazione del Sé), porta a leggere il legame interspecifico più come una funzione della costruzione dell’identità di una delle parti, quella umana, che come relazione intersoggettiva paritaria. Lo stesso Marchesini lo riconosce, ammettendo che «il rapporto uomo-animale è stato viziato dalla funzionalità al processo identitario». Un vizio da cui la stessa zooantropologia finisce per essere affetta. Se infatti l’ambizione più rivendicata di questa disciplina vuol essere quella di far riemergere la dimensione relazionale dell’unità costitutiva dell’uomo, che solo per un fraintendimento si sarebbe percepita finora come disgiuntiva, è chiaro che il progetto stesso di pensare una relazione come costitutiva dell’identità porta a concepirla come introiezione di qualità dell’altro.
È ancora lo stesso Marchesini a dover ammettere che «non è possibile riferirsi ai due profili (identità e alterità) come a due enti separati ma come due termini che emergono dalla dialettica identitaria stessa». Quando la zooantropologia cerca di affermare che il debito dell’uomo con l’animale non è solo filogenetico ma interno alla cultura stessa, ecco che compare puntuale il concetto di mediazione a cambiare le carte in tavola: l’alterità animale e quella tecnologica non sono altro che mediatori che «hanno contribuito in modo determinante alla realizzazione delle espressioni dell’umanità», cioè all’attualizzazione delle sue virtualità.
Come d’uso, tutti i paradossi sono ammessi nella dialettica, tanto più in una dialettica della natura. Ma in questo quadro, difficilmente il punto di vista dell’altro avrà cittadinanza: difatti, rimproverando alle proposte animaliste degli anni Settanta e Ottanta una lacuna nella loro investigazione delle diverse ontologie, Marchesini trova che il semplice allargamento della comunità dei beneficiari dei diritti umani non colga nel segno, laddove meglio sarebbe cercare «diritti diversi». E così una proposta che partiva con il rivendicare la complanarità di una relazione si chiude laconicamente nella richiesta di diritti separati.
D’altra parte, vien da chiedersi se davvero possa essere definita relazione, e relazione biunivoca, quella in cui normalmente, e a senso unico, un dialogante si ciba dell’altro; chissà che non dipenda da questo «appetito», più che da un errore di lettura, la sua millenaria confusione con un monologo.
Dal sogno, esce una figura-farsa: proprio come dalla coppia folle nasce l’osceno
della vita a due (vita natural durante l’uno [è] cucina[to] per l’altro)
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso
Approfondire
Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, 2002 Bollati Boringhieri.
AA.VV., a c. di Claudio Tugnoli, Zooantropologia. Storia, etica e pedagogia dell’interazione uomo/animale, 2003 Franco Angeli.
Roberto Marchesini, Pedagogia Cinofila. Introduzione all’approccio cognitivo zooantropologico, 2007 Oasi Alberto Perdisa.
Roberto Marchesini, Sabrina Tonutti, Manuale di zooantropologia, 2007 Meltemi Editore.