Di Agnese Pignataro.
Articolo originariamente pubblicato su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 40-43.
Nella società medicalizzata dell’occidente attuale, vivere la responsabilità incondizionata di un altro essere è un’esperienza rara, inattesa, e dalle profonde conseguenze. Abituati a essere accompagnati quando non sostituiti nella cura degli individui umani più fragili da strutture di supporto (ospedali, asili nido, case di riposo), nell’affrontare la malattia di un non umano, di un semplice animale, ci ritroveremo invece abbandonati dalla società, lasciati interamente alle nostre risorse. Chi si ritrovi solo o sola di fronte a un animale e alla sua vita, non semplicemente da risparmiare ma da preservare, accompagnare, proteggere, vedrà aprirsi una particolare qualità di relazione, quella del dialogo trasformante, una relazione fra specie diverse basata sulla cura.
La ethics of care è conosciuta in Italia come «etica della cura» ed è spesso erroneamente interpretata come un elogio della tradizionale abnegazione femminile. In realtà, la parola inglese care racchiude significati più complessi: non solo prendersi cura di qualcuno, ma anche «curarsene», ovvero avere a cuore l’altro, dare importanza alla sua esistenza, al suo punto di vista, alle sue emozioni.
La prima esplorazione teorica del care fu condotta dalla psicologa americana Carol Gilligan nel saggio del 1982 Con voce diversa. Esaminando una serie d’interviste a soggetti di sesso maschile e femminile, Gilligan distingue due percorsi fondamentali di sviluppo della personalità, uno basato sulla separazione della propria individualità da quella degli altri, tipico dei bambini, l’altro invece sulla consapevolezza della propria connessione con gli altri, tipico delle bambine.
Gilligan nota poi come ognuno di questi due modelli sia legato a una corrispondente percezione della moralità: il primo modello dà luogo a una visione dell’etica come insieme di norme regolanti la convivenza d’individui separati a priori, potenzialmente confliggenti, norme tendenti quindi a proteggere gli uni dalle ingerenze degli altri; il secondo ispira una visione dell’etica come assunzione di reciproca responsabilità tra individui interconnessi, una responsabilità che consiste in primo luogo nel preservare i rapporti trovando soluzioni ai dilemmi etici che accolgano il punto di vista di tutte/i (compreso il proprio: di qui la netta presa di distanza di Gilligan dal modello patriarcale di femminilità oblativa, cioè unicamente rivolta all’assistenza altrui).
Emergono così due opposte concezioni dell’etica: la prima consiste nel «non fare», nell’astenersi dal male concepito come azione che danneggia; laddove la seconda prevede invece un «fare», un’azione positiva che risponda ai bisogni e alle richieste degli altri, e considera piuttosto l’assenza di risposta come male.
Secondo Gilligan, la psicologia tradizionale ha adottato il percorso della «separazione», cioè del divenire individui autonomi, come unico paradigma per lo sviluppo della personalità, e questo pregiudizio non solo ha reso inspiegabili o addirittura giudicato «non mature»le idee e i comportamenti delle donne, ma ha determinato una visione unilaterale dell’etica nella quale i valori della relazione e della sollecitudine sono poco considerati.
Tale contrasto è particolarmente evidente nel dibattito sul rapporto tra umani e animali. Da un lato, le correnti filosofiche più note si ispirano proprio a quelle teorie etiche occidentali che, nell’interpretazione di Gilligan, adottano una visione dell’individuo e della società fondata sul paradigma della separazione: tanto l’utilitarismo (Peter Singer) che il giusnaturalismo (Tom Regan) delineano infatti un insieme di attributi di cui è titolare ogni soggetto morale (gli interessi, i diritti) e dettano regole volte a proteggere gli uni dall’aggressione degli altri (il calcolo, la legge morale). Il piano delle pratiche sembra seguire gli stessi presupposti: l’enfasi è tutta sull’essere vegani (smettere di cibarsi delle carni e dei prodotti animali), quindi sull’astensione dal male, mentre un’eventuale relazione con l’animale, l’azione positiva, non è mai evocata, ovvero è esclusa dalla sfera dell’etica e relegata al privato. Questa tendenza alla separazione si accentua nelle posizioni di chi concepisce la «liberazione animale» come risultato dell’solamento della società umana dalle altre specie, per culminare nell’«estinzionismo» di alcune frange dell’ecologismo e del veganismo, che vede nella scomparsa volontaria dell’umanità il sommo gesto etico nei confronti del mondo non umano.
L’esordio di Liberazione animale, il saggio di Peter Singer che nel 1975 trasformò il vegetarismo in una questione di filosofia morale, è particolarmente significativo di tale scelta di campo. Nella prefazione, Singer racconta una sua conversazione con due zoofile inglesi le quali, saputo che stava scrivendo un libro sugli animali, avevano voluto incontrarlo. Le due signore dichiarano a gran voce il loro amore per gli animali, parlano dei loro cani e gatti e menzionano un’amica che gestisce un rifugio per animali malati, ma nel frattempo addentano noncuranti dei panini al prosciutto. Singer risponde invece di non essere particolarmente appassionato di animali e di non possederne, e spiega che il suo interesse per gli animali consiste nel criticare le arbitrarie discriminazioni e i crudeli trattamenti cui sono quotidianamente sottoposti dagli umani: come nel caso del maiale che era stato ucciso per diventare il prosciutto contenuto nei panini delle due signore.
Il racconto intende distinguere dalla tradizionale e paternalistica protezione dei soli animali da compagnia una nuova corrente di pensiero, quella dell’uguaglianza animale, che afferma che tutti gli animali hanno il medesimo interesse a non soffrire, e che questo interesse deve essere rispettato; tale concetto si delinea per opposizione all’atteggiamento protezionistico, caratterizzato da emotività, superficialità, incoerenza (non a caso, incarnato da due donne!)
Senza contestare la novità e l’importanza del messaggio di Singer, è però essenziale notare come esso presenti una grave mancanza che il movimento di liberazione animale, prodotto anch’esso da un tradizionale razionalismo (maschile, bianco, occidentale) non ha notato. Difatti, nell’aneddoto, mentre nell’approccio delle zoofile inglesi la vita degli e con gli individui non umani è presente, e addirittura preponderante, in quello del filosofo essa è del tutto assente: in quanto filosofo Singer con gli animali non condivide e non vuole condividere nulla. Lo stesso presupposto si riscontra negli autori successivi a Singer, anche in coloro che per altri versi lo criticano. Si potrebbe dire che nella filosofia morale animalista è presente solo la morte degli animali, morte incombente, morte da evitare (paradigma della separazione-astensione), laddove la loro presenza e il loro esistere (paradigma della connessione-responsabilità) restano sullo sfondo, elementi paradossalmente problematici in un discorso che descrive l’umano esclusivamente nei termini del despota, mai del possibile compagno di strada.
Sulla base di queste considerazioni, alcune teoriche femministe e vegetariane americane hanno tentato di delineare un’etica animale alternativa basata sul care. Josephine Donovan e Carol J. Adams, le più note, sono le curatrici di una fondamentale raccolta apparsa nel 1996 e significativamente intitolata Oltre i diritti animali.
In particolare Josephine Donovan, studiosa di letteratura femminile, ricostruisce la storia dell’impegno intellettuale e politico delle donne in favore degli animali (come la duchessa di Newcastle, corrispondente di Cartesio e critica risoluta dei suoi animali-macchina, Harriet Beecher Stowe, autrice di La capanna dello zio Tom e sostenitrice dei diritti animali, Frances Power Cobbe, suffragetta e antivivisezionista) e cerca le radici di un’etica del sentimento nei filosofi inglesi del XVIII secolo (Hutcheson, Shaftesbury, Hume) o ancora nel fenomenologo Max Scheler, mostrandone gli sviluppi in autrici (e autori) femministe, ecologiste e animaliste contemporanee. Secondo Donovan, la variegata tradizione culturale femminile e femminista, basata sulla relazione con l’altro, l’ascolto, la reciprocità, la cura responsabile, e sul rifiuto delle gerarchie e delle antitesi, può fondare un’etica rivolta alla vita non umana che possa accoglierne la diversità e rispettarne le preferenze: «Dalla cultura femminile della relazione, della cura e dell’attenzione amorevole emerge la base per un’etica femminista per il trattamento degli animali. Noi non dobbiamo uccidere, mangiare, torturare e sfruttare gli animali perché loro non vogliono essere trattati in questo modo, e noi lo sappiamo. Se ascoltiamo, possiamo udirli».
Nel suo più recente articolo, «Femminismo e trattamento degli animali: dal care al dialogo», Donovan espone una serie di considerazioni che delineano con più precisione la portata di questo approccio e propone di assumere come fonte epistemologica delle teorie etiche sugli animali il punto di vista degli animali stessi. L’etica animalista del care si caratterizza così come etica della conversazione, un processo dialogico che incorpora non solo la riflessione dell’umano deliberante, ma anche, e soprattutto, la «voce diversa» dell’animale coinvolto, ovvero l’insieme dei comportamenti espressivi che ne manifestano il punto di vista, la volontà. Da parte umana, i soggetti privilegiati di tale conversazione sono secondo Donovan le donne, più attente all’ascolto delle voci più deboli perché storicamente soggette esse stesse alla svalutazione delle proprie opinioni e all’elusione delle proprie preferenze.
Ci si potrà chiedere cosa garantisca una corretta interpretazione della voce dell’animale. Innanzitutto, una semplice comparazione analogica è sufficiente per decifrare le reazioni di fuga o di panico di molte specie in situazioni di pericolo e così attribuirle alla volontà di sottrarsi alla morte: basta uno sguardo equo per capire che ogni animale, come noi, vuole fondamentalmente continuare a vivere. Questo primo livello dell’etica dialogica mette in crisi l’idea che gli animali possano essere uccisi per il vantaggio umano e fonda l’obbligo di un’alimentazione vegetale (poiché anche gli animali allevati per produrre «derivati» sono uccisi, ancora giovani, quando non più produttivi). Ma, come abbiamo visto, la prospettiva del care non si limita all’astensione dalla violenza, bensì consiste nell’accettare la connessione con l’altro, e le responsabilità che ne derivano. La pratica ripetuta dell’ascolto attento e benevolo affinerà progressivamente la sensibilità al punto di vista dell’animale e aiuterà a comprendere bisogni e preferenze legati al suo particolare modo di esistenza. Da tale consapevolezza scaturirà una risposta, un intervento attivo in suo favore, sporadico o duraturo a seconda del contesto relazionale. Due immagini preannunciatrici di questo rapporto inedito con gli animali possono essere quella della «gattara» e quella del «genitore amorevole»: persone, di qualunque sesso, liberamente impegnate in una cura quotidiana, attenta e rispettosa, di soggetti vulnerabili con bisogni e linguaggi molto diversi dai propri.
La teoria del care in un contesto interspecifico si caratterizza quindi come una riflessione aperta in cui la voce diversa dell’animale interviene come elemento portante della decisione etica e modella a sua volta il punto di vista del soggetto umano in conversazione con essa. Questi vede l’animale sempre meno come una cosa e sempre più come una persona, ne riconosce le preferenze, accoglie la sua presenza nel proprio mondo e accetta di esserne trasformato. Acquisire un’ottica del care nei confronti degli animali significa quindi accompagnarli e lasciarsene accompagnare in un mondo comune di esistenza, in cui voci diverse possano esprimersi e ascoltarsi, ognuna a suo modo.
Bibliografia
J. Donovan e C. J. Adams (a cura di), Beyond Animal Rights. A Feminist Caring Ethics for the Treatment of Animals, Continuum, New York 1996.
J. Donovan e C. J. Adams (a cura di), The Feminist Care Tradition in Animal Ethics, Columbia University Press, New York 2007.
J. Donovan, « Feminism and the Treatment of Animals : from Care to Dialogue », Signs : Journal of Women in Culture and Society, 2006, vol. 31 n° 2.
C. Gilligan, In A Different Voice, Harvard University Press, 1982-1993 (trad. it. Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, trad. it. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano, 1987).